Paolo Fresu: "Così ho usato De André per spiegare il cibo"

2 Mag 2023, 12:59 | a cura di
Il trombettista Paolo Fresu presenta in anteprima il suo nuovo album FOOD in tutte le pizzerie Berberè. Lo abbiamo intervistato per saperne di più.

Il trombettista sardo Paolo Fresu presenta il suo nuovo album FOOD, un concept dedicato al cibo pieno di ospiti internazionali. Fino al 19 maggio si potrà ascoltare sulla web radio Pizza or Vinyl, in tutte le pizzerie Berberè. Lo abbiamo intervistato.

Parliamo subito del tuo nuovo album FOOD, come nasce l'idea del concept e che legame c'è con ALMA e EROS i precedenti album prodotti insieme a Omar Sosa e Jaques Morelenbaum?

Questo album fa parte di una trilogia. Il primo con Omar Sosa, ALMA, risale a undici anni fa, e lo avevamo fatto senza uno specifico tema, suonavamo già da tempo insieme e abbiamo deciso di portare il nostro repertorio in studio. Solo con EROS però è maturata l'idea del concept album, cosa che andava molto negli anni settanta. Tutto il concetto del disco aveva a che fare con il tema erotico. FOOD è in un certo senso il prosieguo di quel disco, ma con un tema più delineato. Ci sono molti ospiti come Indwe, cantante sudafricana, Cristiano De André, Andy Narell, percussionista americano, poi ci siamo noi. Questo è l'album più complesso della trilogia, anche dal punto di vista produttivo.

Che legame c'è con il cibo?

Abbiamo composto le basi su cui suoniamo con suoni che appartengono al mondo del cibo. C'è ad esempio la declamazione della ricetta della zuppa berchiddese del mio paese, registrata in sardo da un signore locale, ci sono i pregonèros delle religioni animiste cubane. Nel brano Father c'è un signore quasi centenario che ringrazia Dio prima del pasto.

Pizza_margherita Berberè Ph_AlbertoBlasetti

Foto di AlbertoBlasetti

Perché la scelta di far ascoltare l'album in anteprima nelle pizzerie Berberè?

Le pizzerie di Berberè hanno un pensiero molto vicino al nostro. Artigianalità, passione e curiosità. Da loro ci andavo da semplice mangiatore di pizza, poi ho conosciuto i fratelli Aloe (i creatori di Berberè, ndr) e ho capito il loro percorso di buona produzione e buona economia. I due fratelli calabresi sono stati molto intraprendenti, senza rinunciare a quell'idea di artigianalitàà che da loro si respira sempre. C'è una grande ricerca sul prodotto, che poi è la stessa cosa che facciamo noi. Il prodotto musicale non è poi così diverso da quello gastronomico.

Come funzionerà l'ascolto?

Sulla loro web radio ci saranno in rotazione le canzoni di FOOD e sui cartoni delle pizze da asporto ci sarà stampata la copertina dell'album.

Raccontaci la genesi di FOOD

É stato un percorso lungo, iniziato più di un anno fa, con le registrazioni sul campo portate poi in uno studio a Parigi dove abbiamo ascoltato, selezionato e armonizzato ore e ore di materiale. Poi abbiamo registrato a Udine e mandato tutti i brani ai musicisti tra Castelsardo, New York, Cape Town, Johannesburg, Rio de Janeiro. Dopodiché abbiamo mixato tutto a Parigi e masterizzato a Berlino. Tutto questo processo così articolato è bello da raccontare.

Si tratta di un'operazione piuttosto inconsueta, soprattutto nell'universo musicale di cui fai parte.

Abbiamo trovato una realtà allineata al nostro pensiero sul cibo, sul rispetto ambientale e sociale, tutti temi affrontati nei testi delle canzoni, in cui è coinvolto anche Carlin Petrini. Volevamo che ci fosse coerenza in tutto il progetto. Berberè condivideva in pieno il cammino che già stavamo facendo.

Il primo singolo di FOOD è “Â çimma”, cover di Fabrizio de André, registrata con la voce di suo figlio Cristiano. Questa canzone racconta di un cuoco che prepara una pietanza cosiddetta povera della cucina genovese, perché approntata con gli avanzi della settimana. Il cuoco poi, dopo ore di preparazione, vede il suo piatto servito ai clienti e divorato con una voracità inquietante. In che modo questo pezzo ti ha fatto riflettere sul rapporto che abbiamo con quello che mangiamo?

Quella di De André è una poesia, un racconto che parla di lentezza, concetto che abbiamo quasi dimenticato. La nostra fretta di mangiare annichilisce la storia del piatto che abbiamo davanti, fatta di apprendimento e saggezza. Questa canzone, attraverso una storia semplicissima, riesce a dirci cosa c'è dietro il cibo, dal punto di vista dell'artigianalità e del rispetto soprattuto. Sapevo già che  çimma trattava quei temi, ma solo leggendo bene il testo ho capito che il pezzo sarebbe stato perfetto per FOOD. Il nostro non è stato un divertissement intorno al cibo, volevamo fare un disco che avesse valenza politica, che fosse utile a una riflessione su questi temi, di attualità sconvolgente.

Che rapporto hai con il cibo?

Io e Omar siamo appassionati di cibo e buoni vini, e l'idea dell'album è nata proprio a tavola. Eravamo coscienti che quello del cibo fosse un argomento prezioso e giusto per questo momento storico. Ci siamo divertiti un mondo anche dal punto di vista compositivo, perché abbiamo lavorato su un terreno del tutto inesplorato, quello che accomuna appunto musica e cibo.

Ascoltando  çimma si ha la sensazione che tu abbia voluto continuare la fase 'world' di Fabrizio de André, quella di Creuza de mä o Le Nuvole, spingendoti in modo più deciso verso nuovi mondi. É così?

Sì è così, perché intanto non volevamo stravolgere il pezzo originale, in cui nella seconda parte c'è quel momento decisamente africano a livello sonoro. Non dimentichiamo che Omar è cubano e che la musica cubana ha una forte componente africana. La musica che facciamo sempre, al di là di questo pezzo, è molto meticciata, ci sono suoni che vengono da tutte le parti del mondo. C'è la Sardegna, il jazz americano, il Mediterraneo, c'è l'Africa pura. Abbiamo sempre questa idea dei vari assaggi. Quando si organizza una cena multietnica e si chiede a ognuno di portare un piatto della propria tradizione, non è che quel piatto se lo mangia solo chi lo ha portato. Si mette tutto in mezzo alla tavola e ognuno assaggia un po' di tutto. La nostra musica vuole essere questo, una grande tavola in cui ciascuno condivide con gli altri la sua identità culturale. Con Omar abbiamo sempre ragionato così, e quando abbiamo inciso  çimma tutto questo è venuto fuori. La canzone originale aveva già un suono per così dire africano, ma poi nella nostra versione c'è una sorta di rumba cubana. Ecco tutto questo è casuale, ci siamo lasciati andare e tutte le nostre passioni si sono manifestate in modo del tutto spontaneo. Anche nelle cover presenti nei dischi precedenti, come Teardrop dei Massive Attack, abbiamo lavorato così, rispettando il brano originale, ma respirandolo con il nostro fiato.

Fresu presenta il nuovo album da Berberèph_MichelaSartini

Foto di MichelaSartini

Per FOOD avete registrato i suoni delle cucine di varie culture. Quali sono stati quelli più interessanti, quale cucina è la più adatta ad essere ascoltata?

Non credo che ci sia una cucina che si lascia ascoltare più o meno. Non volevamo per questo disco un concetto imperante riguardo al cibo. Nella copertina ad esempio c'è una donna dalla carnagione mulatta che ha in testa il classico piatto di spaghetti con pomodoro e basilico. Dentro il disco c'è una frase di Pertini, “riempiamo i granai così non facciamo la guerra”, che sembra scritta per questo momento. C'è anche una frase di una famosa giornalista cubana che teneva lezioni di cucina in televisione. Le voci sono sarde, cubane, americane, quindi non c'è una gerarchia nella nostra proposta sonora, nonostante ognuno abbia gusti ben precisi.

Non ti sbilanci...

C'è da dire che la cucina italiana è quella più gettonata, piace davvero a tutti. Ma il nostro intento era quello di dimostrare che il tema del cibo è globale. Il nostro mangiare in qualche modo ha effetto su altre parti del mondo, perché magari mangiamo più del dovuto e agli altri rimane poco. Anche il nostro racconto del cibo voleva essere universale, rispettoso di tutte quelle istanze che vengono da tutte le parti del mondo. Abbiamo lavorato molto su questa idea del mondo che gira intorno al cibo e viceversa. Si parla ancora poco del modo in cui si produce il cibo, una problematica cruciale oggi che coinvolge tutta l'umanità, di pari passo con il tema ambientale. Se chiediamo a qualcuno come mangia siamo capaci di capire chi è e inquadrare il suo posto sulla terra. Noi preferiamo la cucina italiana, ma siamo uomini curiosi. Io giro per il mondo e mi piace mangiare le cose più laide nei posti più improbabili. Mi piace l'idea della scoperta del cibo attraverso il viaggio, e penso che il modo migliore per conoscere un nuovo paese sia mangiando le cose che offre. La curiosità significa apertura, condivisione, tutte cose che soprattutto in Europa sono carenti in questo momento storico. La tavola è uno degli strumenti più importanti per comprendere e conoscere gli altri.

Nella tua carriera hai favorito la mescolanza del jazz con altri stili come la popolare, l'elettronica, la world music. Come la cucina anche la musica si muove verso ibridazioni che le etichette e i generi fanno fatica a inquadrare.

Quando uno ama la musica, che sia rock, jazz, pop, quella musica può diventare tua se la respiri alla tua maniera. Nella scrittura originale mi lascio andare alle mie emozioni, quello che sento e quello che vedo. Abbiamo la fortuna di girare per il mondo e quello che vediamo inevitabilmente si traduce nella musica che facciamo. Quando si suona insieme agli altri ognuno porta con sé quello che ha vissuto e tutto ciò cambia il volto delle cose. Un giornalista chiese a Miles Davis “Cosa vede nel jazz?” Lui rispose semplicemente “Vedo il futuro”. Il futuro non lo conosciamo, ma l'unico possibile è quello in cui ci apriamo verso il nuovo. Dipende solo da noi.

Continuerai a fare musica in questa direzione? Che sapore avranno i tuoi prossimi progetti?

É difficile dirlo. Quello che sto cercando di fare da anni, senza ragionarci troppo, è suonare la musica che amo, e metterci tutto quello che sento e che mi piace. Il grande Duke Ellington diceva che esistono due tipi di musica: quella buona e l'altra.

Torniamo al passato. C'è stato un momento nella tua infanzia in Sardegna in cui hai avuto la sensazione che il gusto e l'udito potessero dialogare? Come suonava il cibo con cui sei cresciuto?

Suonava molto bene devo dire, io sono figlio di pastori e contadini, quindi ho vissuto la realtà della campagna, degli animali. I suoni erano quelli della collettività, che scandivano i momenti importanti dell'anno, come l''uccisione del maiale o la tosatura delle pecore. Quando avevo sette o otto anni stavo spesso in campagna con mio papà, che nel periodo pasquale o natalizio sgozzava una ventina di agnelli per il nostro sostentamento. Poi li portava in paese in macelleria per le persone che li ordinavano. Vivevamo di questo. Lo sgozzamento aveva un suono, quello del belato del povero agnello che disperato comprendeva la sua fine imminente.

Un ricordo doloroso?

Ricordo anche che mio padre quando moriva una bestia spesso piangeva. Ma in campagna non si uccide mai per caso, si fa per un bisogno umano, quindi non parlerei di ricordo doloroso. In generale i suoni della campagna erano i suoni del lavoro, della collettività, delle relazioni familiari, della brace del camino quando salavano la carne. Era una carne non straordinaria, di più. Questi suoni rappresentavano dei riti ormai perduti. Anzitutto oggi non puoi uccidere un animale in casa, e non puoi lavorare le carni.

Mancano dunque quei suoni originari.

Molti di questi siamo riusciti a metterli nel disco. Alla fine del pezzo con Cristiano de André c'è un suono di un camino di un ristorante di Udine che si chiama Alla Vedova, famoso per un pollo impressionante. Nel pezzo “Father” si può sentire il rumore di un torchio. Questi suoni, che abbiamo poi elaborato e manipolato, mi riportano a cinquant'anni fa, quando la collettività e il gusto erano una cosa sola. La parte cruenta dell'uccisione degli agnelli, per me bambino, era una cosa normale. Non avevo ancora una coscienza critica, ma capivo già che quelle cose erano necessarie, e che mio padre campava così. Quando andavo con lui a portare il latte delle pecore appena munte alla cooperativa ero molto fiero. Quando moriva una pecora le si toglieva la pelliccia e la si metteva su un'altra, in modo che l'agnello orfano potesse riconoscere con l'olfatto la presenza della madre defunta. I ricordi di allora dimostrano che c'era un'attenzione diversa rispetto alle dinamiche del presente.

a cura di Giacomo Proia - autore di “Le canzoni italiane illustrate” con le illustrazioni di Ilenia Tiberti

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