C’è una Sicilia antica che rivive nei suoi riti, nelle sue tradizioni e nei suoi cibi di strada. Molte di queste esperienze sono andate perse, ma altre tornano a rivivere, anno dopo anno, come dei baluardi in mezzo a nuove mode globalizzate. Così le feste di paese, ancora molto in voga al Sud (girando tutta l’isola, ogni giorno si potrebbe incappare in una celebrazione patronale), sono diventate dei veri viaggi nel tempo – presente e passato – mettendo assieme Pokémon (a volte ritornano!), Labubi di dubbia provenienza (meglio conosciuti come “Lafufi”), tormentoni musicali dell’estate (ma quest’anno, in mancanza, si è dovuto ripiegare sulle canzoni di Sanremo) e bancarelle di calia e simenze. Questi ultimi si riconoscono perché di solito sono parecchio folcloristici, richiamando temi cavallereschi che normalmente decorano i carretti siciliani.
Se agli occhi degli isolani, comprare la calia è un atto dovuto (non farlo sarebbe come andare ad una festa senza assistere ai fuochi d’artificio), i turisti restano sempre stupiti davanti a questi piccoli stuzzichini tondi appena sfornati. Di fatto si tratta di ceci abbrustoliti in tempo reale. Il vero caliaro (un mestiere sempre più raro che, per sineddoche, si estende a chi vende dolciumi di vario tipo nelle sagre di paese) si porta dietro una sorta di calderone pieno di sabbia calda in cui, in bella vista, vengono posti i ceci.
La tostatura, infatti, è un passaggio fondamentale: solo a contatto con la sabbia i ceci si riscaldano mantenendosi croccanti anche nei giorni a venire. Non a caso, il verbo caliare (che in siciliano significa scaldare) dà il nome a questo cibo di strada di origini arabe. L’ultimo step, prima della vendita, è il passaggio nel crivu, ovvero il setaccio, in modo da separare i ceci dai granelli di sabbia.
Non si può mangiare la calia senza produrre rumore: sgranocchiare è la regola, così come assaporarla rigorosamente per strada (non a caso caliare significa anche bighellonare), come ricorda il fotografo siciliano Ferdinando Scianna in uno dei racconti del libro Ti mangio con gli occhi: «C’erano i caliari, con i loro spettacolari banchi colorati, impennacchiati e dipinti. In grosse fornacelle facevano la calia tostando i ceci dentro la sabbia. Poi c’erano i semi di zucca e di melone tostati ricoperti di sale e la simenza – arachidi e mandorle.
Lo scacciu era una mescolanza variamente composta di questi elementi. Se ne compravano grossi cartocci. Ognuno aveva il suo e tutti vestiti a festa la sera facevano cento volte lo struscio (passeggiata serale nei giorni di festa lungo le vie principali; ndr) avanti e indietro per il corso, in mezzo a una folla inestricabile, aspettando l’ora tarda dei fuochi d’artificio… Tutti quanti ruminavano la calia e rompevano i semi con un abile colpo di denti per poi sputare le buccine salate. All’alba, sul corso, ce n’era un compatto tappeto».
Quello della calia è un sapore che sa di terra e di concretezza. Dalla cottura si porta dietro la sapidità della sabbia del mare che spesso viene smorzata con altri cibi di strada tipici delle feste siciliane, le cannelline: zuccherini colorati con dentro filetti di cannella. Amate dai bambini, le cannelline – a partire dalle forme sinuose – sono l’opposto della calia. Per questo in coppia sono perfetti: dolce e salato assieme. Don Chisciotte e Sancho Panza. Tesi e antitesi. La Sicilia in cui convivono arte greca e barocca. E adesso anche Labubi e tormentoni estivi da reinventare.
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