Il colloquio

"C’è pochissima creatività a Milano, si mangia molto meglio in Campania". Intervista allo chef Eugenio Roncoroni

Intervista a tutto tondo a Eugenio Roncoroni all'interno del suo Roncoroni Classici Gastronomici: "Milano manca di entusiasmo, ma c'è chi immerso in questa negatività fa cose interessanti"

  • 10 Ottobre, 2025

Classici gastronomici. A leggere il nome del ristorante aperto da qualche tempo da Eugenio Roncoroni alle Colonne di San Lorenzo a Milano (Roncoroni Classici Gastronomici, a esser precisi) si potrebbe pensare a un posto di tovaglie bianche e gesti pure bianchi, rassicurante e borghese. Niente di più sbagliato. Si tratta di un locale inclassificabile, anarchico, personalissimo, dove Roncoroni e la sua socia e compagna Cristina Giordano preparano davanti a un bancone piatti bistronomici che guardano più alla Francia e a certa America metropolitana e colta che all’Italia. Per dire, pasta qui non se ne fa. Un locale con 14 posti, cinque dei quali allo stesso bancone, una performance da stand up kitchen in spazi e con mezzi ridottissimi, eppure il posto forse migliore per divertirsi gastronomicamente a Milano se sei un’anima inquieta e non ami le etichette.

Cristina Giordano ed Eugenio Roncoroni

Intervisto Eugenio – con frequenti assoli di Cristina – mentre i due mi danno da mangiare, in una sorta di dialogo/spiegazione/flusso di coscienza apparentemente senza filo logico, che chissà dove porterà. Ma proviamo a partire come si deve.

Eugenio Roncoroni, che cos’è Classici Gastronomici?

E’ uno di quei posti che dopo una giornataccia al lavoro, vieni qui e ti senti a casa, e poi facciamo della cucina cucinata, non inutile.

Le Colonne di San Lorenzo sono un posto strano per lei…

Sì, è una zona strana, ma a me piace che sia strana, e poi è capitato così, non è stata una scelta voluta ma casuale, ma alla fine azzeccata.  Non devi mica essere per forza in un posto figo per fare una cosa bella. Prendi Martin Berasategui, una leggenda, va lì e ti trovi in questo paesino con un pazzo che serve orecchie di maiale. E l’Asador Etxebarri, quando sono andato io c’era il tabaccaio e un bar con i vecchietti a bere il bianchetto e ci siamo chiesti se non avessimo sbagliato. Allo stesso modo, io sono di Milano e mi sta bene questo.

L’insegna di Roncoroni Classici Gastronomici

Che cos’era questo posto?

Era un posto che faceva panini di mare, poi era stato chiuso per sei anni e quando ce l’hanno proposto c’era una ragazza che ci dormiva, era tutto rotto, sporco. Siamo rimasti interdetti ma il tempo di arrivare alla fermata dell’autobus che con Cristina ci siamo detti: lo prendiamo.

Milano come ha risposto?

Abbiamo aperto a maggio ed è andato benissimo, poi c’è stato un po’ di assestamento. Ma non abbiamo ansie, il locale sta crescendo poco per volta.

Sembra un locale in cui ogni cosa parla di voi…

Sì, tutto parla di noi e del nostro disagio… Il marmo incastonato nel bancone è quello del tacos bar di Al Mercato, i tavoli sono quelli di mia mamma e della mamma di Cristina, i tappeti per terra ci abbiamo messi un pomeriggio per sceglierli, l’insegna è stata fatta a mano da certi ragazzi di Torino, ci tenevo ad avere un’insegna col mio nome come nei negozi di una volta.

Il patè di Angelo Garro

Parliamo dei piatti.

C’è una sezione dedicata ai piccoli piatti, ci sono sempre delle uova di Paolo Parisi (nel mio caso sode con maionese leggermente senapata e acetosella, ndr).

Cristina: Poi delle Acciughe rosse, una ricetta di mia mamma Egle, la merenda della mia infanzia.

Eugenio: Mentre noi mangiavamo i Saccottini”….

Cristina: Vengo da una famiglia piemontese dell’Alta Savoia, più sabauda di così… Acciughe rosse dissalate a mano, concentrato di pomodoro, zucchero, sale, aceto, prezzemolo, aglio.

Eugenio: Poi abbiamo l’Organo di mare, un piatto di pesce dedicato a Messico e California, sempre un piatto vegetale, una ventresca, il paté di Angelo Garro. E poi ci sono i piatti principali: un’Insalata di gallina, un piatto retrò, l’abbiamo mantenuta all’italiana, fatta al forno e poi sfilacciata e la pelle abbrustolita e la serviamo con una salsa tonnata alla piemontese e un daikon fatto da noi, invece di usare le rape o la giardiniera. E poi faccio il pirla con il quinto quarto, oggi per esempio preparo dei tendini di bue con moscardini e vinaigrette di riccio di mare alla giapponese.

Niente pasta…

Guarda che la pasta io la amo. Però credo che saper fare la pasta sia quasi scontato se sei una persona che vuole fare qualcosa di diverso in Italia. Io sono sempre stato contro la pasta nei ristoranti perché non ha senso uscire per mangiare quello che ti puoi fare in casa.

Molti chef invece la stanno riscoprendo proprio adesso…

Ma se si può dire qualcosa di nuovo in Italia non è certo attraverso la pasta, è come se la Spagna facesse solo la paella. Ed è questo puntare sulla pasta il motivo per cui non siamo primi in nessuna cazzo di classifica di niente. Ci crediamo i primi, siamo i più sfigati. Come nel caffè, il caffè italiano fa schifo. Dobbiamo smetterla di pensare di essere al centro di qualcosa.

L’Insalata di gallina

Nemmeno nella pizza?

Vale il discorso della pasta, ci facciamo portatori di qualcosa che non è nostro. Poi certo, c’è la pizza margherita che è buonissima, ma alla fine la pizza è una base per metterci sopra quello che vuoi. Anche Bonci la pensa come me, perché più vai in alto e meno la gente è attaccata a certi preconcetti. E comunque non esiste il: si fa così. Il si fa così è sempre l’inizio della fine.

Però la memoria storica è importante. O no?

Ma certo, non è che ognuno può dire quello che vuole. Può dirlo se ha fatto una cosa un milione di volte, se c’è una tecnica radicata. Per me la cucina è come il karate, prima di dieci anni non puoi nemmeno salire sul tatami.

Com’è la Milano attuale?

C’è pochissima creatività a Milano, mangi molto meglio in Campania….

Giudizio duro…

Ma guarda, ne ho visto talmente tante di robe, tra i Mercato, il noodle bar, il tacos bar, la morte di Beniamino (Nespor, socio storico morto nel 2016, ndr), le vendite, tre figli, quarantatré anni, ho aperto a 27 quando non c’era niente a Milano. Ci ho sbattuto la faccia mille volte con Milano. Sai quel modo di dire, se ce la fai a New York ce la fai dovunque?

Un piatto di Roncoroni

Sì, e quindi?

Io penso che se ce la fai a Milano ce la fai ovunque, è una città difficile, Milano ha questa tristezza, ha questa energia negativa che ti tira giù, sembra che nessuno risponda a stimoli positivi, e ti sembra a volte che stai lavorando per niente. Però alla fine è una città piena di punti di vista interessanti, ci sono persone che vivono immerse in questo negativo ma fanno delle cose fantastiche.

Che cosa non le piace in particolare di Milano?

Non c’è una vera cultura gastronomica. C’è gente che al noodle bar mi diceva: sì, ma senza cipollotto. Oppure: posso averlo senza coriandolo? E’ la cosa più brutta per uno chef che crede in quello che fa e vuole portare dell’autenticità trovarsi di fronte gente con lo sguardo a metà, in balia delle mode, senza mai il wow, senza mai entusiasmo. Succede solo qui.

Evidentemente non succede in America, che lei conosce bene.

Sono milanese di Porta Romana, mia madre è californiana, a un certo punto dopo aver lavorato in un catering e in qualche trattoria milanese sono andato in America. Mi ero messo nei pasticci, volevo andarmene. E sono stato a Sonoma, dove ho lavorato per Janine Falvo, poi volevo lavorare al Quince di Micheal Tusk, a San Francisco, e mi ha preso.

Perché ha preso lei, come lo ha convinto?

L’ha convinto il fatto che fossi davanti alla sua porta alle 6,30 di mattino. Ancora oggi dico ai ragazzi, non mandate il curriculum, venite qua. Io voglio lavorare con gente a cui frega, che si fa vedere.

Roncoroni, com’è ‘st’America?

Io in Italia avevo lavorato in un catering e poi in una trattoria milanese, anche se non sapevo ancora se volevo fare il cuoco. Sono arrivato in America che pensavo di saper fare e invece mi hanno fatto un culo come una capanna, c’era un ragazzino, avrà avuto sedici anni, un messicano, che mi rimproverava perché non ero abbastanza veloce, ed era il mio secondo, in teoria. Mentre noi pensavamo che l’America fossero solo hamburger, lì facevano cose incredibili, Alice Waters, Anthony Bourdain, Angelo Garro, stava nascendo il farm to table.

Perché poi è tornato in Italia?

“Perché alla fine quando sei fuori da un po’, la percezione italiana ti manca. Anche io, sempre a dire che l’Italia è una merda, poi quando sono fuori quel caffè bruciato e quella brioche secca mi manca. Come mi manca un pezzo della mia stessa tradizione”.

Il paté en croute

E dove ama mangiare in Italia?

(Ci pensa) Da nessuna parte.

Andiamo bene. Cambiamo argomento: che ne è di Pas, il progetto di street food vegetariano?

Questo inverno apriremo finalmente un posto fisico, uno store, dalle parti di Porta Venezia. Il carretto, come lo chiama qualcuno, lo abbiamo spinto parecchio. Ora basta.

Insomma, alla fine a Milano c’è spazio per fare cose…

Ma sì, io sono milanese, minchia! Mio nonno si è sposato in Duomo, aveva una pasticceria in Missori. Solo che noi della nostra generazione, se vogliamo dire qualcosa a Milano, che è una terra di nessuno, dobbiamo staccarci dall’italianità, dobbiamo farci portavoce di una non-tradizione.

Ma insomma, chi è Eugenio Roncoroni?

Io non so che cosa sono e alla fine nemmeno mi interessa. Sono solo me stesso.

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