Ci avviciniamo sensibilmente alla data di presentazione della ventiseiesima edizione della nostra guida Bar d’Italia 2026, che avrà luogo il 26 settembre al Teatro Manzoni di Milano. Giorno in cui sarà presente anche la chef Caterina Ceraudo del ristorante Dattilo, qui in veste di componente della giuria che conferirà il Premio illy Bar dell’Anno dedicato alla sostenibilità. In vista dell’evento, abbiamo deciso di intervistare proprio la cuoca calabrese, peraltro brand ambassador Illy, cui abbiamo chiesto un po’ di cose sul mondo bar, a partire da come si sia evoluto nel tempo tra logiche imprenditoriali, politiche sostenibili e specialty coffee.
La chef Caterina Ceraudo
Dal suo periodo di formazione presso l’accademia di Niko Romito, che fra Reale e Bulgari Caffè garantisce una delle migliori colazioni del paese, quanto è cambiata la proposta mattutina?
Molto. Ora trovo senza dubbio più coerenza nell’offerta di un determinato progetto imprenditoriale. Adesso, anche nel mondo bar, si intravede una certa progettualità, lineare con la proposta gastronomica. Innanzitutto, si pensa a che tipo di bar si vuole essere. Mentre prima in genere si improvvisava.
Al di là del disegno italiano, questo cambio di marcia ha coinvolto anche la sua terra?
In Italia, il modello europeo delle bakery ha avuto successo. Se ne trovano tante nelle grandi città, sintonizzate sull’idea di prendersi un lievitato di qualità “al volo”, e magari un caffè al banco. Dalle mie parti (Crotone), l’evoluzione non è stata dello stesso tipo; la colazione al bar continua a essere un momento speciale che la persona si ritaglia all’interno della propria giornata. Però, a osservare l’assortimento, anche qui si sta andando verso una qualità maggiore. Vedere poi che vige la ricerca del particolare di pregio — non fine a se stesso — è una cosa che mi fa enormemente piacere.
Rispetto al contesto urbano frenetico in cui inquadrare le bakery l’offerta della provincia meridionale si colloca in una dimensione temporale diversa, per certi versi parallela?
Il modello internazionale in provincia ha attecchito meno. Qua si fa una colazione un pochino diversa, che non si limita per forza a cappuccino e cornetto, talvolta congelato. Magari, si può scegliere una granita da mangiare con una brioche appena fatta. Può darsi infatti che vi sia un’attenzione maggiore alla materia prima, alla stagionalità. Certo, in tal caso, lo scontrino è diverso da come poteva essere in passato.
Dattilo, a vedere i riconoscimenti delle guide, è un esempio di sostenibilità. Ma ci spiega meglio cosa significa essere oggi sostenibili?
Adesso se ne parla tanto. È diventato un tema centrale. Ma, come dico sempre, fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Bisogna crederci fermamente nella sostenibilità. Non deve essere una strada intrapresa semplicemente per andare incontro alla moda. Resta una filosofia che va portata avanti fino in fondo, con risultati che si vedono solo a lungo termine. Non è un qualcosa che oggi decidi di voler fare e domani no. Si costruisce piano piano su atti quotidiani che migliorano la vita sociale. Non è semplice visto ciò che ci circonda, ma possiamo provare ad avvicinarci a questo modello virtuoso favorendo l’economia locale, seguendo le stagioni o attraverso il recupero (senza sprecare dunque le risorse). Sarebbe cruciale riuscire a trasmettere la convinzione che ogni minima accortezza quotidiana può fare la differenza.
Prima potevi scegliere se essere sostenibile o meno. Come ha fatto mio padre per il biologico. Oggi, è diventato necessario. E inizio a riscontrare un’altra sensibilità ed educazione a riguardo.
Non crede però che su tale aspetto si costruisca troppo storytelling aziendale?
Effettivamente, non ci dovrebbe essere soltanto lo storytelling. Anche perché a lungo andare si viene smascherati. La sostenibilità deve essere tangibile. Da Dattilo, per esempio, la dimensione sostenibile prescinde dal racconto dell’operatore di sala o dello chef che illustra al tavolo la portata. Basta guardarsi intorno.
Alludeva all’approccio etico e responsabile di suo padre. Una visione che nasce anni fa, quando non c’era ancora un movimento green…
Papà Roberto è considerato ormai un pioniere del vino biologico. Oltre al ristorante Dattilo, abbiamo infatti un comparto vitivinicolo significativo e una tenuta agricola da cui provengono vari prodotti come marmellate e succhi di frutta che mettiamo a disposizione degli ospiti delle camere o inseriamo nella linea Naturalmente, predisposta per la vendita al dettaglio. Il cambio di rotta per cui mio padre venne ai tempi additato come un pazzo è avvenuto però in seguito a una sventura, un episodio alquanto antipatico: l’esplosione di una pompa con cui stava effettuando dei trattamenti sui campi gli finisce sulla pelle causandogli un avvelenamento cutaneo che lo costringe ad alcuni giorni di ricovero in terapia intensiva.
Da quel momento in poi la chimica non è stata più contemplata dalla nostra famiglia. Il ragionamento da lui fatto è risultato tanto semplice quanto condivisibile: se questo trattamento è riuscito a provocarmi dei danni seri semplicemente a contatto con la pelle, immagina quali sarebbero le conseguenze se mangiassi gli alimenti del terreno così trattato.
È più facile abbracciare questa filosofia nella provincia, a partire dal territorio, come avete fatto voi, o si può fare ovunque?
Non vengo dalla città. Non ho perciò grossi parametri all’infuori della prospettiva locale. Penso tuttavia che sia piuttosto una questione di scelte. Sussistono pro e contro sia che si parta da un contesto rurale che urbano. In tal senso, il luogo non dovrebbe mai rappresentare un limite.
Tutti si possono permettere una politica sostenibile, anche modelli di business più piccoli rispetto alla vostra realtà?
Non appartiene solo a pochi. Presto, sarà seguita da tutti quanti. Il mondo sta cambiando: c’è una certa consapevolezza su ciò che dobbiamo fare oggi, considerato quanto fatto in passato. E anche bar e caffetterie possono portare avanti un modello vocato alla sostenibilità. Non a caso premieremo chi sta già facendo un discorso simile: uso di prodotti locali, no-waste, ricorso a materiali riciclabili e pure integrazione fra persone di culture diverse.
Caterina Ceraudo, illy Chef Ambassador
Lei è illy Chef Ambassador. Da questo ruolo deriva un senso di responsabilità o la cognizione di dover essere di esempio?
Rimasi incantata dall’azienda guardando un documentario molti anni fa, prima di diventare loro ambassador. Ma è da quando ho iniziato a lavorarci insieme che mi son resa conto di come Illy sia davvero innovazione, qualità; per me, qualità impareggiabile. E al tempo stesso è attenta a varie problematiche del nostro tempo. Io credo che alla fine le persone affini nella vita si incrocino sempre. Certo, loro sono un colosso, mentre noi in confronto un’azienda piccolina. Ma pur operando su scali diverse seguiamo una simile filosofia. Del resto, noi Ceraudo sposiamo solo quelle collaborazioni che son conformi al nostro modo di lavorare.
La cultura del caffè è cresciuta nei ristoranti? Ci devono puntare come una componente imprescindibile della proposta o chiederemmo loro troppo?
A mio avviso, è assolutamente cresciuta. Le aziende come Illy offrono soluzioni di vario tipo a seconda dei numeri di un ristorante, che sono diversi rispetto a quelli di un bar. È importante che si garantisca al cliente sempre un buon caffè. Anche perché coincide con l’ultimo sapore che rimane in bocca, a conclusione del pasto. Eppure, può capitare — magari pure dopo un’esperienza piacevole — di non berne di buoni a causa di una macchina inadeguata o di un operatore non sufficientemente bravo.
Al ristorante, per esempio, non serviamo l’espresso. Per chiudere il percorso degustazione propongo un metodo V60, di estrazione a filtro. Un personal blend elaborato appositamente per Dattilo, un atto finale, quasi di meditazione, con una palette aromatica floreale, di agrumi e caramello che ho scelto personalmente e che rispecchia le mie inclinazioni culinarie, le stesse che mi orientano nella definizione del menu.
Ma il caffè di livello è per forza specialty? Che ne pensa della “sottocultura” degli specialty coffee?
Non necessariamente. È pure una questione di gusti. Oppure di momenti: cosa ti va di bere nell’arco della giornata.
Le caratteristiche ideali che Caterina Ceraudo ricerca nel caffè?
Sono una grande amica e amante della moka. Mi ci faccio il primo caffè della giornata. E anche dopo pranzo, se c’è, la preferisco. Amo il suo profumo, vi sono legata come un rito. Tant’è che la utilizziamo pure per lo staff del ristorante: il caffè che prepara ci piace molto di più dell’espresso; meno corposo di quest’ultimo, si avvicina per intensità a uno in filtro, con quei sentori di tostatura e nocciola. Una sensazione che ricerco sempre nel caffè.
Diversamente, quando il sorso è particolarmente acido non lo gradisco. Nemmeno quando è tanto intenso da apparire bruciacchiato. Poi, le volte in cui sono in giro, va bene pure al bar. A patto che sia buono, altrimenti ho difficoltà a consumarlo. Ma dopo le cinque e mezza non ne bevo. In prossimità del servizio, quando lavoro, è importante che il palato non risulti alterato dai suoi aromi.
In abbinamento, non può mai mancare…
Il caffè non lo prendo mai zuccherato. Per cui, abbinarci un cioccolatino, una piccola pralina, una nocciola tostata o mandorla ricoperta di cioccolato è cosa assai gradita. Nei bar in cui si va per un consumo rapido, a differenza del ristorante, dal quale ci si aspetta una coccola del genere, non la ritengo necessaria. È qualcosina in più. Però, mi aspetto quanto meno un bicchiere d’acqua, servito prima del caffè. Un gesto che peraltro non viene fatto così spesso.
Il salato non si sposa altrettanto bene?
Personalmente, insieme al caffè, non amo mangiare cibi salati. In generale, preferisco apprezzarne il sorso nella sua purezza. Come fosse un attimo tutto mio. Per intenderci, se ho voglia di qualcosa, mi faccio proprio un caffè.
Il risveglio da Dattilo?
Prestiamo particolare attenzione alla colazione, che rappresenta il prosieguo della cena, dell’esperienza. C’è tanto lavoro dietro: dello staff c’è chi si dedica solo alla linea mattutina, proprio perché deve essere qualcosa di unico, un bel ricordo. Non è il classico buffet. Viene servito tutto al momento. Ci tengo tantissimo, ancor di più alla luce del fatto che non copriamo il servizio del pranzo. Dunque, i lievitati, le spremute, i succhi di frutta, le uova, i formaggi e i salumi, tutti prodotti di altissima qualità, devono comporre una sequenza tanto ricca e abbondante da far star bene gli ospiti per tutto il giorno.
Vuole dire che la colazione merita altrettanta considerazione della cena?
Certamente. Non scherzo mica quando dico che a volte non vado in determinate strutture per non imbattermi in colazioni poco gratificanti. Non vorrei mai ritrovarmi in un hotel in cui si paga una stanza molto, senza che al mattino vi corrisponda un’offerta gastronomica altrettanto valida. Negli alberghi non servono buffet sterminati. Basterebbero poche preparazioni, realizzate a dovere.
E in quel caso con che caffè accompagniamo la colazione?
Resta una cosa molto personale. C’è chi gradisce l’americano, chi quello espresso. Io do la possibilità alle persone di scegliere diverse tipologie di caffè. Così, si sceglie quello più si addice ai gusti del singolo, partendo però sempre dalla nostra miscela intensa Illy, da non confondere con il personal blend adoperato per il ristorante.
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