C’è qualcosa di paradossale nell’immagine di una famiglia benestante che si inoltra nei boschi per “staccare la spina”, ma porta con sé una cucina migliore di quella di molti appartamenti urbani. È l’America del camping, un rituale antico che oggi si muove tra romanticismo wild e consumismo in natura. Qui, dove tutto dovrebbe essere ridotto all’essenziale, niente è lasciato al caso.
A Yosemite, appena fuori dal sentiero che porta a Glacier Point, una famiglia di San Francisco ha appena acceso il fuoco. I bambini fiammeggiano i marshmallows sullo stecco mentre il padre versa uno Chardonnay della Santa Ynez Valley in calici di policarbonato infrangibile. Il profumo del legno di cedro che arde si mescola a quello del salmone selvaggio scottato sulla griglia portatile. Non è un picnic, è un rito. E per molti statunitensi benestanti, campeggiare è un modo di vivere la vacanza, ma è soprattutto appartenenza a una nazione fondata sul mito pionieristico della natura, della libertà e dell’autosufficienza.
Il campeggio come fuga volontaria dal comfort moderno affonda le sue radici alla fine dell’Ottocento, quando gli Stati Uniti stavano per completare la trasformazione industriale. Proprio allora nacque una contro-narrazione: il desiderio di riconnettersi alla natura, non più come necessità, ma come scelta. Figure come John Muir, naturalista e padre fondatore della conservazione ambientale americana, e il presidente Theodore Roosevelt, che campeggiava a cavallo e dormiva sotto le stelle tra le montagne del Dakota, furono protagonisti di un nuovo immaginario: quello di una nazione che, pur correndo verso la modernità, guardava ai boschi come a un luogo sacro. Fu così che nacquero i primi Parchi Nazionali – Yosemite, Yellowstone, Sequoia – e con essi l’idea che la natura dovesse essere vissuta, rispettata, ma anche attraversata con zaino, tenda e stoviglie in metallo smaltato.
Negli anni, il campeggio si è trasformato da esperienza spartana in simbolo di una certa idea di borghesia americana: autosufficiente, raffinata e organizzata. Negli anni ’50 l’Airstream – roulotte d’alluminio lucente dal design aerodinamico – diventa un’icona di eleganza su ruote, parcheggiata tra canyon e deserti. Oggi gli eredi di quella visione viaggiano su camper che valgono più di una casa, con cucine attrezzate, pannelli fotovoltaici e impianti audio da sala cinema. Ma il principio resta intatto: portare con sé il necessario per cucinare, mangiare bene e dormire comodi, lontano da tutto, rimanendo padroni del proprio tempo. Una filosofia che oltreoceano viene insegnata, praticandola, fin dalla tenera età.
Per le famiglie che hanno la fortuna di vivere in case con un proprio spazio verde, l’inizio dell’estate per i più piccoli è segnato dal rituale del camping nel giardino sul retro, il backyard. Nelle prime serate di caldo estivo i bambini dormono in tenda sul prato di casa, muniti di torce e sacchi a pelo. Si mangiano cookies, si raccontano storie di fantasmi, e si vivono così le prime “avventure” nel comfort dei propri spazi. Da adolescenti, è rito di passaggio il summer camp, uno degli aspetti più iconici (e psicologicamente controversi) della camping culture statunitense.
Ogni estate, milioni di teenager statunitensi vengono spediti per due settimane al summer camp, campeggi estivi lontani da casa. Situati in luoghi di una bellezza devastante, sono “villaggi” attrezzati immersi in foreste remote o affacciati su laghi placidi. I ragazzi dormono in bungalow di legno spartani in letti a castello, e imparano, volenti o nolenti, a cavarsela da soli: rifarsi il letto, lavarsi a turno alle docce, piegare magliette e gestire l’igiene personale senza genitori a portata di mano. Per molti, è un’esperienza traumatica che però, estate dopo estate, si trasforma in un appuntamento fisso, amicizie durature e ricordi indelebili. Le giornate si susseguono con un ritmo serrato e idilliaco per i giovani camperisti: lezioni di kayak, trekking nei boschi, tiro con l’arco, gite in canoa, giochi a squadre, caccia al tesoro e corsi di pittura. La sera si accende il falò: si canta, si mangia, si ride, guidati da counselors ventenni con chitarra in mano e pazienza zen. Sono estati uniche, segnate da sapori indimenticabili: porridge alla cannella, pancakes alla banana, hot dogs arrostiti al crepitìo delle fiamme. È in questi contesti che si forma il legame affettivo con la natura, ma anche con la ritualità del cibo cucinato insieme. Un imprinting profondo, che riaffiora decenni dopo, quando quei ragazzini ormai adulti tornano a cercare, nel campeggio con la famiglia, la stessa libertà spensierata di allora.
Per una fascia di popolazione agiata, campeggiare è una religione laica, un ritorno simbolico alle radici di coloni. Ma il pionierismo 2.0 viaggia a bordo di SUV con frigoriferi da campo, utensili multifunzione, e batterie da cucina da chef stellato, il tutto declinato in formato ultraleggero. Protagonista di questa immersione nella natura è il cibo, che ricopre un ruolo centrale nella vacanza in tenda. Si parte dal barbecue: in acciaio spazzolato, pieghevole, alimentato a propano o legna compressa. Le bistecche vengono marinate e messe sottovuoto a casa, e tenute al fresco in frigoriferi Yeti alimentati a batteria solare. Alcuni portano addirittura da casa i propri Dutch oven, le pesanti marmitte in ghisa smaltata con coperchio da interrare tra le braci, usati per fare il pane e cucinare stufati.
Non certo una sopravvivenza all’aperto, la preparazione dei pasti in campeggio oltreoceano è più un’espressione artistica al limite del performativo. E nel menu sono immancabili le carni grigliate e le pannocchie di mais scottate alla brace, trote pescate al mattino, una miriade di salse fermentate homemade, tuberi cotti nella cenere, sottaceti fatti in casa. Per non parlare della prima colazione, che è un tripudio di uova strapazzate, bacon sfrigolante, frutta di stagione, tazze di caffè fumanti, e montagne di fagioli stufati.
La vita del campeggiatore ha sede nella tenda o nel camper, ma tutto ruota attorno al fuoco: non più solo fonte di calore, ma cuore pulsante del bivacco. Intorno al fuoco si cucina, si mangia, si racconta. E si beve. Il vino è custodito in bottiglie termiche; le birre artigianali in lattina sono selezionate in base al menu. Ogni dettaglio è pensato per far sembrare casuale l’accuratezza. Dietro a questo stile di vita esiste un’industria milionaria: fornelli ultracompatti (il modello più basic parte da 2 mila dollari) e poi filtri per l’acqua degni della NASA, kit da cocktail per miscelazione wilderness, luci Edison dal look vintage da agganciare agli alberi, amache e poltroncine pieghevoli, macchine per il caffè espresso da campeggio con pressione a pompa manuale. La lista continua. L’America si accampa, sì, ma lo fa con le derrate alimentari di un piccolo esercito, e l’estetica di una rivista patinata.
Eppure, in mezzo a questa ostentazione funzionale, sopravvive un nucleo autentico. Il campeggio resta per molti l’unico spazio dove poter vivere in totale pace e autosufficienza. Dove preparare la brace e poi cucinare senza fretta significa stare lontani dallo stress, dai clacson, dal delivery. E dove a fine serata, gli s’mores – dolcissime costruzioni di marshmallow fondenti, biscotti e cioccolato – si confermano il dessert da campeggio più amato da ogni generazione.
A Yosemite, il fuoco è ormai brace. I bambini dormono arrotolati nei sacchi a pelo, la bottiglia è finita. Rimane solo il crepitìo lieve della legna e quell’odore che si infila nei vestiti e resta addosso per giorni. In fondo, il senso è tutto lì: cucinare per chi si ama, lontano da tutto, sotto un cielo stellato enorme. Anche il pasto più semplice, in una notte così, ha il sapore quieto della libertà.
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