Quanta puzza sotto il naso quando si parla di cucina italiana all’estero, e quanta spocchia quando questa cucina viene preparata negli Stati Uniti. Eppure la cucina dei nostri migranti d’oltreoceano, arrivati in massa nel Novecento sulle coste del Nord America, molti dei quali tra le rigorosissime ispezioni mediche e burocratiche di Ellis Island a New York, merita rispetto come altre tradizioni gastronomiche.
La cucina italo-americana non è la cucina italiana, bensì è una corrente, una propaggine, un adattamento. Di più: è uno stile di cucina italiana creato nel corso di decenni dagli emigrati e dai loro discendenti che inevitabilmente si sono dovuti adattare al contesto, agli ingredienti che era possibile reperire e al gusto di un altro enorme paese a loro sconosciuto. Mentre la piccola strada che oggi contiene Little Italy a New York (ormai da anni ridimensionata dalla crescita di Chinatown) si è riempita di ristoranti “acchiappaturisti” che di italiano non hanno nulla, ci sono ancora piccole realtà locali che raccontano gli aspetti più buoni dell’americanizzazione della nostra cucina (ne ho scritto qui).
Uno dei ristoranti di Little Italy a New York, foto Sonia Ricci
In un paesino tra i boschi della Virginia, ad esempio, c’è un pezzo di cuore d’Italia: prima ancora che ordini, Albert ti porta una polpetta a tavola con due forchettine da affondare nella pallina immersa nel sugo, perché vuole farti assaggiare la ricetta della mamma Agostina. Di posti così in America se ne trovano sempre meno, Albert ha 87 anni e da sedici ha aperto Geraldi’s, ristorantino che porta il suo cognome a Floyd, un minuscolo paese di 400 abitanti. Non parla italiano, ma si sente profondamente italiano, e dietro alla cassa tiene orgogliosamente la foto in bianco e nero della mamma e del papà (lui napoletano e lei di Sciacca) che arrivarono a Brooklyn all’inizio del Novecento.
Albert Geraldi, foto di Sonia Ricci
Ancora oggi prepara le ricette di una volta tipiche della cucina italo-americana, pochi e semplici piatti a prezzi bassissimi rispetto alla media del Nord America. Gli spaghetti and meatballs sono davvero buoni, le polpettine di cui sopra servite con un ottimo sugo con la giusta acidità e la pasta incredibilmente non scotta. Buoni, semplici, casalinghi. E poi fettuccine Alfredo, pizza, calzoni di cui Albert va fiero e sandwich al pollo croccante e cremoso. Non te ne puoi andare senza aver provato i suoi cannoli. Ti guarda e ti dice: «Come in Sicilia, vero?». Il suo non è l’unico gioiello della cucina italo-americana che è possibile incontrare negli Usa.
Foto di Rory Doyle
Un altro minuscolo paesino del placido e povero Mississippi, Cleveland, ospita una delle migliori pizze d’America e la cosa incredibile è che a prepararla è una donna messicana. Fragrante, leggera e ben cotta; una generosa dose di pepperoni come da tradizione. La pizza di Marisol, che ha studiato a Napoli, è incredibile. Questa giovane promessa si è addirittura fatta spedire un forno a legna dall’Italia in una delle zone rurali più povere degli States pur di sfornare un prodotto come si deve. Al tavolo insieme alla pizza arriva anche un piccolo contenitore pieno di salsa color ambra, “è hot honey, potete pucciarci il cornicione”. Nonostante la diffidenza iniziale, seguiamo il consiglio: che sballo. Eccola quella maledetta influenza americana, è tutta lì, in quell’ingrediente che in Italia farebbe storcere il naso ma che in realtà dovremmo smettere di snobbare.
“Benservito” è una delle rubriche pubblicate sul mensile del Gambero Rosso, che trovate in edicola e in digitale
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