Tra le pieghe dell’Aspromonte e i boschi fitti delle Serre calabresi, dove l’autunno profuma di castagne e legna umida, si tramanda una tradizione gastronomica tanto antica quanto controversa: quella della caccia e del consumo alimentare del ghiro. Non si tratta di una leggenda, né di una boutade da osteria. I ghiri – sì, proprio i piccoli roditori notturni dal pelo morbido e lo sguardo curioso – finiscono ancora oggi in pentola, nonostante la legge italiana ne vieti espressamente la cattura, l’allevamento e il consumo. Una pratica che divide, e che nella Calabria profonda resiste, sospesa tra memoria contadina, retaggi romani e zone d’ombra difficili da illuminare.
Il consumo alimentare del ghiro non è certo invenzione moderna. Già i Romani ne facevano allevamento domestico in apposite anfore di terracotta chiamate gliraria, e i piccoli roditori venivano ingrassati a pane e ghiande prima di essere serviti farciti con miele e spezie, come documenta Catone il Censore nel De Agri Cultura.
In alcune aree montane del Mediterraneo – e in particolare nel Sud Italia – questa tradizione non si è mai davvero interrotta.
In Calabria, tra i paesi dell’entroterra ionico e tirrenico, il ghiro rappresentava per secoli una risorsa alimentare povera ma preziosa: cibo da caccia stagionale, riservato alle tavole delle grandi occasioni. Nei racconti degli anziani, ricorre il sapore “delicato, tra il coniglio e il maiale”, e la preparazione classica è ancora ricordata: interi, al sugo, con cipolla rossa, pomodoro e peperoncino.
Ghiri al sugo – Foto del Gruppo Forestale dello Stato
Oggi il ghiro (Glis glis) è considerato specie protetta dalla Convenzione di Berna e dalla normativa italiana (Legge 157/92). Cacciarlo o detenerlo è reato. Eppure, tra settembre e novembre – quando esce dal letargo estivo in cerca di noci, fichi e castagne – se ne registrano ancora catture clandestine, complici la morfologia impervia del territorio, la trasmissione orale delle tecniche di caccia e, in alcuni casi, un malinteso senso di “identità gastronomica” da preservare.
Secondo alcune inchieste giornalistiche e fonti investigative, in zone dell’entroterra calabrese i ghiri vengono persino allevati in piccole gabbie artigianali, nutriti con frutta secca per ottenere una carne più tenera e grassa. Un’usanza che oltrepassa la soglia dell’illegalità per entrare nel terreno dell’illiceità ambientale e sanitaria. Il tutto lontano dai circuiti ufficiali della ristorazione, naturalmente, ma ben presente in certe occasioni conviviali private.
Che si tratti di una gastronomia residuale legata alla fame di un tempo, o di una forma di ritualità identitaria oggi spesso esibita come vezzo trasgressivo, il consumo del ghiro resta una pratica culturalmente radicata in alcune comunità. Per alcuni è un simbolo della cucina arcaica, per altri una vergogna da cancellare. Lungi dall’essere un semplice “cibo proibito”, come le anguille novellate o i datteri di mare, il ghiro è diventato in alcuni ambienti – seppur circoscritti – un oggetto di culto gastronomico.
Ghiri macellati – Foto del Gruppo Forestale dello Stato
In alcune operazioni delle forze dell’ordine condotte negli ultimi anni in aree interne dell’Aspromonte, sono stati rinvenuti congelatori contenenti centinaia di ghiri già pronti per la cottura e persino gabbie artigianali per l’allevamento domestico. Si tratta di elementi concreti che confermano una diffusione sommersa e strutturata, al di là delle narrazioni folkloriche. Non mancano, inoltre, riferimenti all’impiego di questa pietanza in contesti rituali da parte di ambienti legati alla criminalità organizzata, ma è un tema su cui le fonti investigative invitano alla cautela: più che un elemento centrale, sarebbe un simbolo marginale, riservato a cerchie molto ristrette.
Raccontare questa pratica gastronomica significa affacciarsi su un mondo sospeso tra oralità, identità e violazione della legge. Il ghiro non si trova nei menu, né nelle sagre, eppure continua a rappresentare, per una parte della Calabria profonda, un frammento di cultura alimentare che resiste sotto traccia. Una testimonianza scomoda di quanto possa essere complesso il rapporto tra tradizione, legalità e percezione collettiva del cibo.
Nessuna celebrazione, nessuna demonizzazione. Solo la fotografia, nitida e senza filtri, di una gastronomia che esiste anche quando non si può raccontare troppo a voce alta.
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