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Vietata per mille anni. Storia del prezioso e grassissimo wagyu che dal Giappone ha conquistato il mondo

Ecco la recente storia della costosissima carne giapponese piena di grasso che fa impazzire il mondo

  • 24 Agosto, 2025

Tutti (o quasi) avranno sentito parlare del manzo di Kobe e delle cure che vengono prodigate nel suo allevamento, a partire dalla leggenda dei capi massaggiati e nutriti a birra. Il Kobe, che prende il nome dall’omonima città giapponese, è solo una delle espressioni del Wagyu, ovvero la tipica razza bovina nipponica. Capi di piccola taglia dal pelo nero che sono stati selezionati per avere una quota importante di grasso intramuscolare: la celebre marezzatura che rende la carne morbida e saporita. E che ha anche ispirato creazioni artificiali con stampanti 3D.

Giappone: per mille anni senza carne

Per oltre un millennio il consumo di carne fu quasi assente in Giappone, a causa dell’influenza combinata di tabù religiosi e di un allevamento poco sviluppato. La svolta arrivò solo con l’apertura forzata all’Occidente nella seconda metà dell’Ottocento. La diffusione del buddismo, a partire dal VI secolo, contribuì in modo decisivo a questa proibizione. Sebbene non tutte le scuole buddiste imponessero una dieta vegetariana, in Giappone i precetti religiosi vennero interpretati in modo particolarmente rigido, rafforzando anche alcuni tabù dello shintoismo, che considerava impura l’uccisione di un animale. A partire dal VII secolo si susseguirono editti imperiali mirati a vietare la macellazione e il consumo di carne di mammiferi; erano ammessi solo pesce, uccelli e alcuni tipi di selvaggina. In questo contesto, la carne divenne un alimento raro, riservato a cacciatori, samurai o usato a scopi terapeutici. L’isolamento del periodo Edo (1603-1868), sancito ufficialmente dal regime Tokugawa con l’era del “Paese chiuso” (sakoku), contribuì a mantenere intatte queste abitudini alimentari. Per oltre due secoli i contatti con il resto del mondo furono sporadici e rigidamente controllati.

L’inizio dell’influenza occidentale

La situazione cambiò con l’arrivo nel 1853 delle navi americane del commodoro Perry e l’apertura dei primi porti ai commerci stranieri. Nel 1868 salì al trono l’imperatore Meiji, deciso a modernizzare il Giappone anche attraverso l’adozione di usi e costumi occidentali, compresi quelli alimentari.
Nel 1872 fu reso noto che l’imperatore stesso mangiava carne di manzo: un gesto simbolico che sancì la fine del tabù. Il piatto simbolo di questa transizione fu il gyunabe, una sorta di stufato di manzo con miso e salsa di soia. In pochi anni il consumo di carne crebbe a tal punto che il consumo giornaliero di carne bovina a Tokyo passò da una mucca e mezzo nel 1868 a venti capi solo cinque anni dopo.

La nascita del Wagyu, il manzo giapponese

I bovini in Giappone furono introdotti molto probabilmente dalla Cina e dalla Corea tra il II e il V secolo d.C., durante il periodo Yayoi. Questi animali erano usati esclusivamente come animali da lavoro, specialmente per l’aratura e il trasporto in risaia e infine come fonte di fertilizzante. A causa dell’isolamento genetico dei bovini, la razza locale sviluppò caratteristiche uniche.
Tra il 1868 e il 1887 furono importati circa 2.600 capi bovini europei (Shorthorn, Devon, Brown Swiss, Simmental…) per migliorare le dimensioni e la produttività della razza locale. Gli allevatori iniziarono così a sperimentare gli incroci, ma vennero sospesi nel 1910 a causa dell’emersione di tratti genetici ritenuti negativi. Qualche anno più tardi venne avviato un programma di selezione interna delle razze denominato “Improved Japanese Cattle” che portò al riconoscimento ufficiale di 4 razze nel 1944: Japanese Black (Kuroge Washu, circa il 90% dei Wagyu odierni), Japanese Brown (Akage Washu), Japanese Shorthorn (Nihon Tankaku Washu) e Japanese Polled derivata da incroci con razze britanniche (in particolare Aberdeen Angus), oggi quasi scomparsa.

Non solo Kobe: la Omi-gyu è la più pregiata

Nel frattempo alcune prefetture si stavano specializzando nell’allevamento di bovini da carne a cui associarono la propria denominazione territoriale. La più famosa, soprattutto all’estero, è la Kobe, basata esclusivamente su bovini Japanese Black della linea Tajima, nati e allevati nella prefettura di Hyogo. Esistono però molte altre “indicazioni geografiche” altrettanto importanti, ma poco conosciute al di fuori dal Giappone, a cominciare dal Omi-gyu proveniente dalla Prefettura di Shiga che vanta la più antica denominazione documentata risalente al periodo Edo e da molti è considerata una carne ancora più pregiata del Kobe. Si potrebbe continuare con il Matsuzaka della Prefettura di Mie, l’Hida della prefettura di Gifu, lo Yonezawa della prefettura di Yamagata, il Sendai della prefettura di Miyagi, il Miyazaki dall’omonima prefettura, e molti altri ancora, ognuno con le proprie caratteristiche distintive e un particolare metodo di selezione e allevamento.

Perché Wagyu? Il “tesoro” della marezzatura

Il Wagyu possiede caratteristiche genetiche che, unite al particolare regime di allevamento e alimentazione, sviluppa una marcata marezzatura della carne, ovvero la presenza di grasso intramuscolare. Il grasso, sotto forma di venature che infiltrano le fibre muscolari, si distingue per un alto contenuto di acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi, tipici degli oli vegetali della frutta secca e del pesce. Questa caratteristica conferisce al grasso due caratteristiche: la prima è un basso punto di fusione, pertanto già a temperature contenute dona una particolare morbidezza e una sensazione tattile piacevole al palato; la seconda è un particolare profilo aromatico dalle noti dolci dovuto alla presenza di alcune molecole tra cui il trans-4,5-epossi-(E)-2-decenale, considerato cruciale per l’aroma caratteristico del Wagyu.

Le scale di valutazione della marezzatura

Esistono diverse scale di valutazione del Wagyu, ma quella più conosciuta a livello internazionale distingue due parametri: la resa in carne, espressa in A, B e C (dove A è il grado superiore) e il grado di qualità che include marezzatura (BMS: Beef Marbling Standard), colore, consistenza e lucentezza del grasso espresso in un punteggio da 1 a 5. A questi si aggiunge la valutazione specifica dell’indice di marezzatura che va da 1 fino a 12 che indica il grado estremo. In questa scala il massimo è un A5-12, ovvero massima resa, massima qualità e marezzatura eccezionale.

Ricette e cotture: limiti e particolarità

La carne con queste caratteristiche, in particolare quella con un maggiore grado di marezzatura, non è adatta a tutte le cotture. Quando lo spessore supera qualche millimetro, o arriva a diversi centimetri, come la nostra classica costata da cuocere alla griglia, risulta assolutamente immangiabile per l’eccessiva percentuale di grasso.
Per questo motivo i piatti tradizionali nipponici prevedono di utilizzare fette di carne estremamente sottili, che in Italia potremmo associare alla preparazione del Carpaccio. I metodi più classici con cui si consuma il manzo in Giappone prevedono una rapida immersione nel brodo bollente, come nel caso dello shabu shabu o del sukiyaki in cui la carne viene cotta su una piastra insieme alle verdure e la salsa warishita. I tagli meno nobili, sempre a spessori molto ridotti, possono essere cotti velocemente in salsa di soia e mirin per comporre il gyudon, ovvero la ciotola di riso bianco ricoperta di fettine di carne. Una versione “portatile” di questo piatto consiste negli involtini (nikumaki) di carne ripieni di riso bollito e cotti allo stesso modo. Spessori un po’ più generosi sono consentiti per la classica bistecca, oppure per il gyukatsu impanato e fritto, simile alla nostra cotoletta. Queste ultime due ricette nascono dall’incontro con la cucina occidentale (yoshoku), ma di solito sono realizzate con tagli notevolmente più magri.

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