Tra terrazzamenti scoscesi che guardano il mare e palmenti scavati nella roccia più di due secoli fa, i fratelli Bruno e Carmelo Traclò producono a Bova un vino che non imita nulla e nessuno: il Lanò. Un calice che parla la lingua aspra e solenne della Bovesìa, l’area grecanica dell’estremo sud calabrese, sospesa tra l’Aspromonte e la fiumara Amendolea, dove riverbera l’eco remota di una civiltà ancora presente nei nomi delle cose, nei silenzi, nei gesti.
Bova, cuore culturale di questo areale minoritario, si aggrappa alle sue pietre con la dignità di chi ha scelto di restare. Il greco di Calabria, una lingua arcaica e viva, si sente ancora tra le vie, nei saluti sussurrati agli angoli e nelle conversazioni tra anziani, ma va lentamente ritirandosi nelle nuove generazioni, che spesso si esprimono ormai solo in italiano. È in questo contesto fragile e insieme fiero che nasce il Lanò, parola che nel greco-calabro indica proprio il palmento, il pigiatoio tradizionale scavato nella pietra viva. Quello della famiglia Traclò, attivo ancora oggi, supera i duecento anni ed è parte integrante della cantina: non solo simbolo, ma strumento vivo di una pratica contadina che non ha mai avuto bisogno di riscriversi moderna.
Fare vino a Bova non è semplice. Non lo è mai stato. Il clima aspro e montano, le forti escursioni termiche, i terrazzamenti scoscesi tra i a 600 e i 700 metri di quota, l’assenza di impianti irrigui e la distanza da ogni dinamica commerciale non aiutano. Ma per i fratelli Traclò tutto questo è un valore: «Qui si lavora come si è sempre fatto», dicono con semplicità. Le viti sono allevate ad alberello e curate a mano, senza chimica né compromessi. Solo fatica, tempo e ascolto.
La vigna si trova nella contrada Brigha, che prende il suo nome dal monte che si trova a sud di Bova, sul versante Ovest, disposta su quattro terrazze. «Si trova su un terreno censito nel 1742, un tempo di proprietà di un vescovo di Bova, poi acquistata da mio nonno e tramandata a mio padre e poi a noi», spiega Carmelo Traclò. Grande poco più di un ettaro, l’appezzamento ospita viti vecchie di varietà autoctone, come il Nerello mascalese, detto qui Mavreli, il Castiglione, la Lacrima piccola di Bova, la Nocellara, la ‘Ntsolia (Inzolia), il Guardavalle, la Tundhulidda.
Il Lanò nasce dalla co-fermentazione spontanea di queste uve autoctone antiche (alcune come la Tundhulidda, a rischio scomparsa), raccolte e vinificate insieme secondo la pratica antica dei contadini grecanici, che non avevano il lusso di separare per varietà. Un gesto semplice, ma che diventa oggi segno distintivo. La fermentazione avviene in acciaio, senza controllo della temperatura, l’affinamento è lungo, lento: almeno due anni in vasche d’acciaio e altri sei mesi in bottiglia prima della messa in commercio. Il risultato è un vino austero e schietto, che non ammicca a nulla, non ruffiano né immediato. Ha il colore del sole che scolora la pietra, un naso di erbe secche, alloro e carruba, poi echi indefiniti di frutta rossa, funghi, agrumi in disidratazione. In bocca è ruvido e slanciato, con un’acidità verticale che sostiene la trama terrosa. Un vino che non cerca equilibrio, ma profondità. Un vino che racconta – e non recita – un territorio.
Ogni anno, di questo vino “antico”, ma che ha iniziato ad essere commercializzato solo a partire dalla vendemmia 2012, vengono prodotte circa 5000 bottiglie numerate, molte delle quali viaggiano più all’estero che in Italia: Francia, Danimarca, Belgio, perfino Giappone. Non per strategia, ma per naturale convergenza: «All’inizio ci cercavano solo gli importatori che avevano conosciuto il vino per caso. Oggi ci ritornano ogni anno», racconta Carmelo Traclò.
La cantina sorge nel centro storico di Bova, all’interno di un’abitazione familiare che ospita ancora oggi un palmento attivo, utilizzato per la pigiatura manuale delle uve. Tutto qui è intimo e coerente: nessuna etichetta patinata, nessuna sala degustazione scenografica. Solo l’essenziale: botti, contenitori d’acciaio, glacette e bottiglie impilate in angoli freschi, dove la pietra conserva naturalmente la temperatura. Il contesto non è artefatto: è reale. E racconta la dignità di una viticoltura marginale che, proprio perché marginale, sa essere libera.
A Bova tutto è resistenza. Linguistica, culturale, agricola. Lo testimonia anche il ritorno di giovani che, come i fratelli Traclò, non solo hanno scelto di restare, ma di restituire nuova linfa a saperi che stavano per estinguersi. Il Lanò è il loro modo per tenere vivo un dialetto, un paesaggio, un’idea di vino che ha poco a che vedere con le tendenze e molto con la terra cui si appartiene e con i ricordi di una vita. Degustare un calice di Lanò è quindi anche un atto politico, se vogliamo: significa scegliere di ascoltare una voce fuori dal coro, fatta di gesti antichi, silenzi lunghi e identità profonda. Un vino che non ha bisogno di spiegazioni, ma di rispetto. Un sorso che racconta di una terra che fa passi da gigante per emanciparsi, ma che ha tanti angoli lontani dai riflettori e che rischiano di perdersi se nessuno raccoglierà l’eredità di chi, come Bruno e Carmelo Traclò, ne ha custodito e ne custodisce l’anima.
Foto in apertura tratta dalla pagina Facebook del Comune di Bova.
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