Per qualcuno è “il nuovo Salento”, per altri un’ultima frontiera ancora incontaminata del Mediterraneo. Negli ultimi due anni, l’Albania è passata dall’essere una meta di nicchia a una destinazione di massa: nel solo 2023 ha superato i 10 milioni di visitatori internazionali, e nel 2024 le cifre sono salite ancora. A fronte di una popolazione di circa 2,8 milioni di abitanti, il numero è impressionante. Il governo albanese ha spinto con forza sul settore, aprendo le porte a capitali stranieri, infrastrutture turistiche e progetti immobiliari lungo la costa. Ma questa espansione, come ha titolato Balkan Insight, solleva interrogativi sempre più urgenti: quanto può reggere un territorio tanto fragile? E soprattutto, chi paga il prezzo del boom?
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Osservatori locali e analisi indipendenti denunciano già gli effetti collaterali di questa crescita. In un post molto condiviso su LinkedIn, Amalys — contributor della piattaforma Albania My Way — ha elencato le principali criticità che la popolazione sta affrontando: perdita di autenticità nei centri costieri, precarietà del lavoro stagionale, aumento esponenziale dei prezzi degli affitti, con conseguente espulsione dei residenti dalle aree più attrattive. A tutto questo si aggiunge lo stress sugli ecosistemi naturali, con consumo incontrollato di risorse idriche, gestione inadeguata dei rifiuti e disturbo alla fauna selvatica. In alcune zone, le spiagge sono ormai dominate da strutture private, e la sensazione è che la crescita economica stia avvenendo a scapito dell’equilibrio sociale e ambientale.
Uno dei casi più emblematici della fragilità ambientale albanese è quello del lago di Ohrid, al confine con la Macedonia del Nord. Riconosciuto dall’UNESCO come uno degli ecosistemi d’acqua dolce più antichi e biodiversi d’Europa, il lago ospita oltre 200 specie endemiche e un equilibrio idrico delicatissimo. Tuttavia, come documentato da Reuters, l’espansione disordinata delle strutture turistiche sulle sue rive — alberghi, guesthouse, ristoranti — ha provocato un aumento dell’inquinamento organico, legato alla mancanza di sistemi fognari funzionanti e allo smaltimento inadeguato delle acque reflue. La pressione antropica sta compromettendo la qualità dell’acqua e minaccia sia la biodiversità acquatica sia le attività tradizionali legate alla pesca e all’agricoltura.
Anche la costa ionica albanese, un tempo celebrata per le sue baie selvagge e i villaggi isolati, è oggi sotto pressione crescente. Il reportage di France24 ha mostrato come l’aumento esponenziale dei visitatori stia aggravando fenomeni già in atto: erosione delle spiagge a causa della cementificazione e dell’eliminazione delle dune costiere, sovrasfruttamento delle falde acquifere per alimentare alberghi e impianti turistici, e desertificazione estiva di ampie aree rurali. Il cambiamento climatico agisce come moltiplicatore di instabilità, con stagioni turistiche più brevi, eventi meteo estremi e incendi boschivi più frequenti.
Particolarmente controverso è il progetto dell’aeroporto internazionale di Vlorë, in costruzione proprio accanto alla laguna di Narta, una delle ultime zone umide costiere intatte dell’Adriatico. L’area ospita oltre 200 specie di uccelli migratori, tra cui fenicotteri rosa, pellicani e aironi, ed è considerata da ornitologi e biologi marini un habitat di valore inestimabile. Le organizzazioni ambientaliste, tra cui BirdLife International e EuroNatur, hanno lanciato appelli per fermare i lavori, denunciando il rischio concreto di distruzione del delta, già inserito nella lista delle zone a rischio dal network Emerald. Ma finora, gli interessi legati allo sviluppo turistico sembrano prevalere sul principio di precauzione ambientale.
Di fronte a un’accelerazione turistica tanto repentina quanto disordinata, l’Albania si trova oggi a un bivio. Continuare a puntare esclusivamente su numeri in crescita — più arrivi, più strutture, più investimenti — rischia di compromettere, nel medio periodo, proprio ciò che ha reso il Paese così attrattivo: la qualità del paesaggio, l’equilibrio ambientale, la vivibilità per chi ci abita. Eppure, un’alternativa esiste. Un primo passo potrebbe essere la definizione di limiti di carico turistico nelle zone più fragili, come la costa ionica e le aree lagunari, introducendo meccanismi di prenotazione e accesso regolamentato nei mesi di alta stagione.
Molte delle soluzioni possibili — così come i problemi — non sono nuovi: sono gli stessi che l’Italia ha già affrontato (o evitato di affrontare) in regioni come la Puglia, la Sicilia o la Liguria, dove l’eccesso di presenze ha messo sotto pressione gli ecosistemi costieri e reso sempre più difficile l’accesso al mare per i residenti. Anche in Albania, servirebbero moratorie sulle nuove costruzioni, una revisione delle concessioni balneari e investimenti urgenti in reti fognarie, depurazione e gestione dei rifiuti.
Ma soprattutto, potrebbe diventare importante a pranzo decentrare il modello turistico, valorizzando l’entroterra, i villaggi montani, i parchi naturali: luoghi oggi marginali ma potenzialmente centrali in un’ottica di turismo lento e culturale. Senza il coinvolgimento diretto delle comunità locali — ascolto, redistribuzione, partecipazione — anche le migliori strategie rischiano di restare sulla carta. Ripensare oggi il turismo in chiave sostenibile non è una scelta ideologica, ma una necessità concreta. E il tempo per agire non è infinito.
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