Quando arrivi a Little Italy ti accorgi immediatamente di una cosa vera e di una cosa falsa. È certamente “little” il quartiere di New York simbolo degli italiani d’America, una strada che resiste all’incessante avanzata di Chinatown, il più grande quartiere cinese fuori dall’Asia. Ma di “Italy” non ha assolutamente nulla, se non la tracotanza dei dehors che anche qui, unico luogo nella Grande Mela, avanzano con prepotenza davanti alle vetrine dei locali, mangiandosi marciapiedi e strade. Ma l’invasione dei tavoli è solo l’unico tassello di una rappresentazione plastica della cultura gastronomica italiana che ormai da anni aleggia in Mulberry Street. Una rappresentazione che fa tristezza, infarcita della retorica della cucina delle nonne e di pasta fresca scadente. Dopo esserci tornata per l’ennesima volta, così come in passato, non consiglierei a nessuno di andarci.
Il turismo di massa si è divorato tutto, pure quel poco che rimaneva del quartiere dove nei primi anni del Novecento centinaia di migliaia di italiani si stabilirono. Dal 1860 al 1880 almeno 68mila connazionali si insediarono in città, passando per Ellis Island, la piccola isoletta dove avvenivano le rigorose ispezioni oggi sede di un museo e monumentale archivio. Negli anni Venti il numero salì addirittura a quasi 400mila. In molti risiedevano nella Little Italy di Lower Manhattan, molti altri si trasferirono a East Harlem e crearono una Little Italy più grande. Nella prima, chi arrivava rispettava collocazioni ben precise: i campani si stabilirono principalmente presso Mulberry Street, i siciliani a Elizabeth Street, i calabresi e i pugliesi a Mott Street, i genovesi in Baxter Street. Oggi non c’è più di nulla, solo insegne che ammiccano goffamente all’Italia e di italiani se ne contano sulla punta delle dita.
Il covo dei banditi, Mulberry Street (1888), foto di Jacob Riis
Del quartiere dove vivevano i migranti italiani rimane solo l’insegna bianca appesa all’ingresso della via principale. Iconica per carità, è pur sempre una semplice insegna. Da una parte, dicevamo, il quartiere è stato inglobato da Chinatown, dall’altra colonizzato dal vicino SoHo e ribattezzato Nolita, un nome stravagante che in realtà racchiude un acronimo molto semplice, è infatti l’abbreviazione di “north of Little Italy”. Il quartiere non è quello delle strade delle iconiche fotografie di Jacob Riis, dei famosi successi della mafia e dei film di Martin Scorsese, Mulberry Street non è più quella degli anni Cinquanta e Sessanta con caffè, botteghe, le ferramenta, l’arrotino, dei buongiorno e buona sera, dei dialetti. Il registra e produttore cinematografico è cresciuto due strade più in là, su Elizabeth Street, dove all’epoca vivevano i siciliani, ed era stato chierichetto alla Old St. Patrick’s.
La grande insegna all’inizio di Mulberry Street
Ristoranti e locali strapieni di visitatori servono molto spesso piatti dozzinali. I menu sono pressoché tutti uguali: antipasto caldo, involtini di melanzane, cozze, cozze e ancora cozze, scampi e ancora scampi, carpaccio alla veneziana, arancini, pasta e fagioli, minestroni, l’immancabile prosciutto e mozzarella, la caprese tutto l’anno, pizza “diavolo”, vitello al limone, parmigiana of course, un’insospettabile insalata Treviso, la sconosciuta pasta con le creste di gallo, pasta primavera, fettuccine Alfredo, spaghetti carbonara, spaghetti with meatball, “linguine vongole“, ravioli, bucatini, tortellini, lasagne come se piovesse, pappardelle ai funghi, rigatoni alla vodka e chi ne ha più ne metta. Un guazzabuglio di elementi italiani che fa venire il mal di testa.
Interi capitoli sul pollo: chicken francaise, chicken cacciatora, chicken piccata, chicken scarpaniello, chicken saltimbocca, chicken Marsala, chicken romana, chicken Sorrentino, chicken Rollatini, chicken Arrengenatti.
Succede per tutte le cucine, direte voi, il cinese che mangi qui da noi non è lo stesso che puoi mangiare a casa loro. E cucina cinese non vuol dire un granché, così come cucina italiana, perché c’è da tenere conto che le gastronomie di mezzo mondo hanno le loro peculiarità regionali. Vero, verissimo. Di più: quella che si mangia a Little Italy a New York, come in altre città degli Stati Uniti, è soprattutto cucina italo-americana, una grande tradizione nata dai nostri connazionali che emigrarono lì per necessità, una cultura gastronomica che merita rispetto come quella della madre patria (che la nostra Eleonora Baldwin, italo-americana, prova a raccontare da anni) ma che oggi in quel quartiere nessuno vuole davvero valorizzare.
Gli italiani residenti se ne sono andati – le comunità più grandi sono a Brooklyn, Bronx e Astoria – e al loro posto è rimasto un circo che ha come unico obiettivo quello di attrarre turisti poco inclini a cercare esperienze autentiche e più propensi a ingozzarsi di piatti mal eseguiti. Che poi è il problema del turismo in generale, tutti tendiamo a frequentare gli stessi posti, le stesse città, le stesse strade.
Tenendo conto di queste variabili, lo spettacolo grottesco della Little Italy di Manhattan è tale da sconsigliare a qualunque italiano di passarci una volta arrivati a New York. Butta-dentro, offerte gastronomiche omologate, negozi di souvenir dove acquistare magliette con le scritte tricolore (“Nonna’s Little Meatball”, per citarne una), il suono dei mandolini di sottofondo. Non andateci, è una perdita di tempo, in città c’è molto di meglio da vedere, e ci sono – altrove, ça va sans dire – molti ristoranti italiani o italo-americani che vale la pena provare. La pizza mangiatela altrove.
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