Tradizioni

La cucina delle piccola (e antichissima) Albania nascosta nel Sud Italia

Nel cuore della Calabria (tra le province di Cosenza e di Crotone) vive la comunità più numerosa degli italo-albanesi di cultura arbëreshë: emigrati nel Regno di Napoli 500 anni fa

  • 14 Luglio, 2025

Lungro, Civita, Vaccarizzo Albanese in provincia di Cosenza, e poi ancora Carfizzi, Pallagorio e San Nicola dell’Alto nel Crotonese. Sono i principali centri di cultura arbëreshë in Italia, ovvero discendenti dagli immigrati albanese tra il ‘500 e il ‘700, alla fine dell’indipendenza albanese guidata da Giorgio Castriota Scanderberg e all’inizio del dominio ottomano. In quei secoli una folta parte della popolazione di etnia albanese tra Albania del Sud e Grecia del Nord si spostò nei territori di quello che era il Regno di Napoli. E oggi rappresentano una comunità fiera, tra le più numerose d’Italia, che ha avuto la tenacia di custodire nel tempo la propria identità culturale attraverso costumi, lingua, religione e gastronomia.

La Calabria è il maggiore centro, ma altri paesi di tradizione arbëreshë si trovano anche in Basilicata, in Campania e in Sicilia, tanto che sono tre le circoscrizioni ecclesiastiche dei fedeli della Chiesa Cattolica italo-albanese: due sono le eparchie, una a Lungro (Cosenza) e una a Piana degli Albanesi (Palermo); e una è l’abbazia territoriale, il monastero esarchico di Grottaferrata (conosciuta anche come Abbazia di San Nilo alle porte di Roma). Sono i principali centri cui fanno capo gli oltre 100mila italo-albanesi d’Italia che hanno mantenuto in gran parte la loro religione di tradizione bizantina e una cucina famigliare molto legata alle feste e ai riti religiosi, momenti storicamente di maggior aggregazione con cerimonie e conviviali identitarie.

Piatti contadini e arcaici

Essendo una cultura dalle radici centenarie che si è sì mescolata alle realtà locali ma che è rimasta per molti aspetti come cristallizzata in alcune delle sue forme antiche e arcaiche, la cucina arbëreshë, o meglio i piatti che in qualche modo la identificano, rispecchiano ovviamente questa caratteristiche. La prima pasta tradizionale è la Dromësat (pronuncia: dromsa) che sembra quasi avere lontane somiglianze col cuscus. Infatti è fatta di farina (ma non di semola) che viene aggrumata con acqua spruzzata sopra con un rametto di origano durante la benedizione della mensa. Un rito antico, appunto, in cui cucina e religione costituisce un unicum indissolubile. I grumi si cuociono poi in un sugo di pomodoro aromatizzato con alloro e origano. E, volendo, anche con la salsiccia che lo trasforma in una sorta di piatto unico.

Uno strozzaprete che si allunga all’infinito

Un’altra pasta tradizionale (gli She?tridhlat) ha proprio nella ritualità della sua preparazione la caratteristica identitaria fondamentale. In pratica si impastano acqua e farina e si forma un cerchio di pasta che poi si allunga con la mani senza mai spezzarlo. Una sorta di infinito strozzaprete, che ha per protagoniste sempre le donne, antiche domina della casa e cultrici della religiosità del focolare. Questa pasta si spezza al momento della cottura e si condisce in genere con una salsa rosa a base di legumi, pomodoro e peperoncino. Le dosi? Un pugno di farina a testa…

I tagliolini nel latte dei pastori

E poi, sempre in tema di cucina liturgica, ci sono i tagliolini nel latte: tradizione arbëreshë filtrata anche altrove sui territori limitrofi alla diaspora italo-albanese tanto da essere ormai un piatto legato alla festa dell’Ascensione in diversi paesi del Sud. In realtà è un piatto legato alla cultura agropastorale: i pastori sono in festa e non lavorano il latte che regalano alla popolazione e che viene quindi utilizzato per cuocere questa pasta che può essere in genere un dolce e che può essere adeguato in diversi modi ai gusto di chi lo prepara e lo consuma: può essere un dolce semi-morbido condito con cannella, zucchero e cacao; può essere ancora più densato e freddato per fargli assumere una consistenza più soda; può essere consumato anche salato, con pecorino di montagna spolverato sopra alla cremina formata dal latte in cui la pasta si cuoce. Un piatto antico, questo, ma al tempo stesso anche moderno…

Il capretto… da dimenticare

Un altro piatto arbëreshë è il Capretto all’harroje, ovvero da “dimenticare”: da lasciar cuocere lentamente sulla stufa economica o sul gas a fuoco bassissimo per diverse ore. Da dimenticare lì, quindi. Deriva dal periodo in cui titta la famiglia era occupata nei lavori dei campi: si lasciavano i cocci col cibo sulla soglia del camino e si rientrava col sole basso. Olio, aglio, prezzemolo e peperoncino cono gli ingredienti base, più tanta acqua per quanto tempo di prevede di star fuori. E del peperone crusco per far festa!

Kulaç, il principe dei dolci

Un dolce caratteristico rituale, per la Pasqua e per le feste di matrimonio è il Kulaç, alias Gugliaccio che nella sua versione lucana è entrato nell’Arca di Slow Food come tipico di San Costantino Albanese, centro di tradizione albanese in provincia di Potenza. Secondo la tradizione per ogni cerimonia si devono preparare due “gugliacci”, uno decorato e l’altro semplice. Quello semplice è di forma circolare e rappresenta l’intreccio delle quattro braccia degli sposi e l’indissolubilità del matrimonio. Quello decorato, invece, ha un nido al centro che rappresenta la nuova casa degli sposi. Le uova all’interno, presenti sempre in numero dispari, sono simbolo di buon augurio e fertilità. È una sorta di pane da cerimonia particolarmente elaborato e ricco sia negli ingredienti che nella preparazione.

Gli altri dolci tradizionali

Oltre al Cugliaccio, ci sono altri dolci tradizionali importanti nella cultura arbereshe, come la Riganella: un torta preparata con farina, lievito, olio, zucchero, vino bianco e un ripieno di noci e uvetta imbevuta nel rum che ha una forma a spirale a simboleggiare il ciclo della vita e la rigenerazione, secondo il rito bizantino.
Poi ci sono i Gurabije, biscotti natalizi ce derivano il nome dal turco “kurabiye”. Non possiamo dimenticare i Kanarkuj, grossi gnocchi bagnati nel miele, o le Kasolle me gjize (involtini ripieno di ricotta) o le frittelle Petulla. E la Pitta, ripiena di frutta secca, uvetta e miele, icona della Pasqua, momento centrale per gli arbëreshë e per tutte le culture più arcaiche, legate alla terra e alla sua coltivazione.

Il ristorante arbëreshë nel cuore di Civita

Ha da poco festeggiato i suoi trent’anni di attività Kamastra, insegna che si caratterizza per la sua proposta centrata sulle tradizioni gastronomiche della locale cultura arbëreshë. Accomodati in un edificio caratteristico del centro di Civita – Borgo tra i più Belli d’Italia situato nel cuore della Riserva naturale Gole del Raganello – a tavola si spazia tra piatti come il capretto al tegame alla civitese (erede appunta del Capretto all’harroje arbëreshë), i cavatelli alla “nenesa” con erbette locali e i filatelli (spaghetti tirati a mano, eredi deigli antichi She?tridhlat) ai funghi porcini, oltre ad antipasti che sciorinano salumi, formaggi e sapori locali. Servizio gentile e accogliente.

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