Oltre confine

La più famosa omelette di Bangkok di stellare ha solo il prezzo

Siamo stati da Jay Fai, il locale celebre per l'omelette di granchio cucinata dall'iconica Supinya Junsuta. E ne siamo usciti molto delusi

  • 14 Luglio, 2025

La celebre omelette di granchio di Jay Fai a Bangkok vista da vicino è una c…ata pazzesca. Lo diciamo fantozzianamente e quindi esagerando un po’. Diciamo che è una vera delusione che alimenta ancora una volta  la frustrazione tutta italica per il fatto che un posto del genere possa vantare sprezzantemente una stella Michelin mentre nessun locale italiano al di sotto dello standard formale di un ristorante bon ton possa dire lo stesso.

Grandi aspettative

Eppure giungiamo in Maha Chai Road carichi di grandi aspettative. Abbiamo letto ogni cosa di Supinya Junsuta, la chef ultrasettantenne che spignatta in una specie di cucina da campo allestita tra il locale e la strada indossando occhiali da fonderia (o da sci, boh?), abbiamo “subito” i consigli di chi in Thailandia è stato di recente o in tempi remoti e tutti sono passati di qui uscendone entusiasti, abbiamo letto con lieve disappunto del fatto che – come spesso accade nei posti “off” – non si accettano prenotazioni, si pratica il “walk in”, chi primo arriva prima si siede, e gli altri zitti in fila, all’aperto, nella Bangkok dove l’umidità è al 100 per cento e solo a respirare si suda amarezza.

Supinya Junsuta coi suoi iconici occhiali

Come in guerra

Ci prepariamo per tempo, quindi, come quando si va in guerra. E’ l’ultimo giorno del nostro breve soggiorno a Bangkok, ma la domenica, il lunedì e il martedì il locale è chiuso, quindi non ci resta che il mercoledì. E mercoledì sia. Decidiamo di andare presto, attorno alle 11,30, dopo aver saltato la sontuosa e pagatissima colazione dell’albergo, e la scelta, almeno da un punto di vista strategico, ci premia: non c’è nessuno in fila e ci sediamo subito. Bene. Il locale è spartano al limite di Guantanamo. E’ vuoto per metà, dentro ci sono solo stranieri evidentemente incuriositi dalla fama di Jay Fai e della sua burbera titolare. Del resto scopriremo presto perché i locali non vengono qui. Il locale è un grande stanzone a dir poco disadorno, maioliche verde acqua alle pareti piene di vecchie recensioni ingiallite, tavoli in formica bianchi, certi sgabellini di legno, in tavola l’unica apparecchiatura è costituita da qualche salsa, dai tovaglioli di carta sputati da un dispenser, dagli stuzzicadenti che in Estremo Oriente hanno ancora cittadinanza nei ristoranti. Non c’è aria condizionata, alcuni ventilatori sparsi qua e là e due grosse pale sul soffitto fanno quello che possono.

La cucina di Jay Fai

Menu plastificati

Arrivano i menu, quattro fogli A4 plastificati e lì capiamo perché questo è diventato un posto da turisti stranieri. I piatti costano tantissimo. Tantissimo per gli standard thai ma tantissimo anche per noi europei. La celeberrima Omelette di granchio costa 1500 baht, 40 euro tondi al cambio attuale, in una città dove abbiamo pagato 600 baht per un viaggio di 45 minuti in taxi dall’aeroporto e dove la sera prima, in un buon ristorante dell’elettrizzante Chinatown, abbiamo pagato 710 baht per una cena completa (cinque piatti abbondanti e due birre). Cracco, scansate. Giovani di Ultima Generazione, accorrete qui a Bangkok!

Tra l’altro accanto al piatto il prezzo è ricoperto da numerose visibili “pecette”, dimostrazione questa del fatto che la cifra è stata ritoccata molte volte negli ultimi tempi. Una furbata che probabilmente nulla ha a che fare con il miglioramento del piatto, ma solo con il desiderio di spremere il cavallo vincente. Umano, troppo umano. Ma è chiaro che per i thailandesi si tratta di un locale inavvicinabile. Uno dice: va bene, non prendere il granchio, ordina altro. Ma con il resto non va meglio: il Poo phad yellow curry, sempre a base di granchio, di baht ne costa 2.000, i piatti a base di riso 800, quelli a base di noodle tra i 600 e i 1.000. Solo le bevande hanno costi thailandesi: una Coca costa 30 baht, una birra 150.

Arriva il granchio

Ordiniamo il granchio, siamo venuti fin qui apposta. La cameriera, soldatino di un piccolo reggimento di ragazze di nero vestite, con lo sguardo severo sembra pensare: “Così fan tutti”. L’attesa è piuttosto breve: in sei minuti cronometrati la nostra omelette è sul tavolo, in un piatto bianco con solo un ciuffo di prezzemolo a reggere il peso della guarnizione. L’omelette è lunga a occhio una ventina di centimetri (diciamo un paio di centimetri in meno del coltello), è bella gonfia, piuttosto bruna, well done. La apriamo ed è ben piena di granchio, sull’impiattamento si gioca al risparmio ma sulla quantità di materia prima certamente no. Ma la tecnica culinaria è grossolana, manca sale (almeno per il nostro gusto) e alla fine il piatto è inizialmente godurioso ma alla lunga un po’ deludente, stancante, monotono. Un po’ un porn food, che gioca solo sull’abbondanza della materia prima. Lo terminiamo a fatica, più per tigna che per desiderio.

L’interno di Jay Fai

Il finto povero

Posiamo la forchetta e ci viene da riflettere sulla retorica dei ristoranti “alternativi” e su certi meccanismi globali della comunicazione gastronomica. Qualcuno, magari un critico gastronomico di un importante quotidiano americano colmo di paternalismo coloniale, a un certo punto si innamora di un locale povero scoperto per caso, intuisce il potenziale comunicativo della sua iconica titolare e lo lancia sul mercato globale. Il locale presto si riempie di gastroturisti che ne fanno il posto must be, arrivano i documentari su Netflix, articoli su articoli in tutto il mondo, arriva pure la stella Michelin, anch’essa intrisa di certe logiche post-coloniali per cui nei Paesi esotici gli ispettori vanno in brodo di giuggiole per posti “no frills” e distribuiscono loro placche rosse con il macaron mentre dai vicini europei gli stessi ispettori pretendono, che diamine, contegno e tovaglie bianche e un sommelier comme-il-faut per sperare nella stessa considerazione. Ma questo è un altro discorso.

Alla fine Jay Fai esplode e come sempre succede in questi casi i clienti altrimenti molto esigenti sembrano felici di sottoporsi a una via crucis di vessazioni pur di poter postare i loro street reel: e quindi lunghe file, sedute scomode, nessun comfort, uno solo bagno per tutti i generi immaginabili assai spartano, per il quale chiunque in Italia scriverebbe commenti di fuoco su Tripadvisor, prezzi altissimi da pagare solo in contanti, sorrisi zero. Qui tutto questo è figo, altrove è uno scandalo, spiegatecelo voi.

E’ giusto avere prezzi da ristorante stellato e maltrattare il cliente solo per mantenere lo status da street food e restare comunque “adorabili”? E’ giusto ritoccare continuamente i prezzi al rialzo senza mai rendere più facile la vita a chi attraversa il mondo per venirti a trovare? E quanto all’omelette, è buona perché è buona o solo perché alla fine se lo paghi tanto DEVE essere buona per forza e poi chi ha voglia di rovinare una bella storia? Alla fine a noi è sembrato che Jay Fai sia solo un posto turistico come tanti ma più furbo di altri: marketing rudimentale ma efficace e clienti da spremere perché tanto il turn over è continuo, Bangkok è stracolma di turisti danarosi, avanti un altro. A noi certi posti non piacciono, certe logiche le troviamo perniciose. E anche la migliore omelette di granchio del mondo, ammesso che lo sia, non giustifica tutto ciò.

Il menu di Jay Fai

Niente foto

Nel frattempo la nostra bibita è finita, chiediamo il conto, ci arriva in pochi secondi un foglietto malscritto a penna con la sentenza attesa: 1.580 baht. Paghiamo in contanti, ovviamente non sono ammesse le carte, come avvisano numerosi cartelli. A proposito: diffidate dai posti con troppi cartelli intimidatori, la ristorazione è democrazia e rispetto e non tirannia. Ah, altri cartelli avvertono anche di non scattare foto, perché il turista deve fare la fila, pagare ma poi non può fare il suo mestiere di turista. Ma lì non ci pieghiamo. Clic, clic, clic, clic, clic. E che la polizia thailandese della fotografia ci venga a cercare, ora. In fondo, sono soddisfazioni.

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