Nella nuova serie Chef’s Table: Legends, prodotta da Netflix e disponibile sulla piattaforma dallo scorso aprile, Thomas Keller viene presentato, insieme ad Alice Waters, José Andrés e Jamie Oliver, come una delle quattro figure che “hanno cambiato il modo in cui guardiamo al cibo”. Tutto nel racconto della fortunata serie contribuisce a restituire il mito, lo chef che ha portato i suoi ristoranti americani sul tetto della gastronomia mondiale. Ma la traiettoria di Keller non è mai stata lineare. Dietro le stelle ci sono anche chiusure, licenziamenti, dubbi sul futuro, cadute pubbliche e una visione della cucina che si è evoluta attraverso la fatica. A distanza di cinquant’anni dai suoi esordi, Keller è ancora lì, nel cuore del sistema gastronomico statunitense, osservato, celebrato, talvolta contestato. Ecco il ritratto di uno chef che ha costruito il proprio percorso un gradino alla volta, portando sempre con sé una domanda: si può essere perfezionisti senza diventare prigionieri della perfezione?
Thomas Aloysius Keller nasce il 14 ottobre 1955 a Camp Pendleton, California. La sua formazione inizia molto presto: lavora fin da ragazzino nel ristorante gestito da sua madre a Palm Beach, Florida, scoprendo il gusto per la cucina e la disciplina del servizio. Negli anni Ottanta si trasferisce tra New York e viaggia in Francia, dove lavora in prestigiose cucine stellate come Guy Savoy e Taillevent. Sotto la guida dello chef Roland Henin impara la rigida tecnica della classicità francese, che andrà a fondere poi con il gusto per il territorio statunitense. Tornato negli USA, lavora come chef de cuisine a La Reserve a New York, dove viene licenziato per tensioni con la proprietà; una crisi che diventa svolta: è qui che Keller capisce l’importanza del lavoro di squadra e si concentra sulla propria identità professionale.
Nel 1986 apre Rakel a Manhattan: cucina francese raffinata, recensita positivamente, ma chiude con la crisi finanziaria della fine del decennio. La svolta arriva nel 1994, quando acquista The French Laundry a Yountville, nella Napa Valley: ci lavora per montare un team, ridefinire l’offerta e alzare gli standard. Il ristorante diventa uno dei più influenti al mondo, ottenendo nel 2006 le sue prime tre stelle Michelin e confermandole per anni. Nel 2004 apre a New York il ristorante Per Se, che ottiene anch’esso tre stelle, rendendo Keller il primo statunitense con due ristoranti allo stesso prestigioso livello. Negli anni successivi amplia il suo impero gastronomico con Bouchon (1998) e la vicina Bouchon Bakery (2006), oltre a progetti come Ad Hoc e The Surf Club Restaurant a Miami, sempre mantenendo alto il suo standard di qualità.
Keller è anche autore di diversi libri di cucina (tra cui The French Laundry Cookbook del 1999 e Under Pressure del 2008) che hanno avuto un impatto nell’insegnamento della tecnica e della cultura gastronomica. Ha ricevuto premi prestigiosi, tra cui il James Beard Award (1996–97), il premio del Culinary Institute of America “Chef of the Year”, nonché la Légion d’Honneur francese nel 2011 come primo chef statunitense insignito. Nel 2017 guida Team?USA alla prima vittoria in assoluto al premio Bocuse?d’Or. Appare persino come se stesso e mentore del protagonista in un flashback nella terza stagione di The Bear. Ma la sua vita non è solo gloria: nell’episodio che lo riguarda in Chef’s Table: Legends, oltre a ripercorrere la sua brillante carriera, emergono anche momenti in cui Keller si mostra vulnerabile alla critica. Un famoso episodio della primavera del 2025 lo ritrae mentre allontana una giornalista dal French Laundry, spia di quanto la pressione pubblica pesi anche su un gigante della cucina.
Thomas Keller resta una figura chiave della cucina moderna: ha costruito un universo gastronomico fondato sulla perfezione tecnica e sul rispetto della stagionalità, diventando icona americana e modello per generazioni di chef. Il suo ritratto nella serie Netflix non idealizza: mette in luce la tensione tra successo e autovalutazione. Il suo messaggio è chiaro: per arrivare all’eccellenza, non basta vincere, bisogna resistere.
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