C’è voluto un po’ per mettere a regime ogni tassello, ma alla fine il taglio del nastro ha sancito la nascita di Borgo San Gregorio, un progetto di ospitalità a tutto tondo costruito intorno all’azienda Feudi di San Gregorio ma che dal vino, primo nucleo originario, si è sviluppato secondo traiettorie centrifughe.
Il borgo non è solo un angolo di verde in un’Irpinia ancora troppo sconosciuta, non è neanche soltanto un’azienda vinicola dedita all’enoturismo, ma un organismo composito il cui il vino, pur sempre cuore del progetto, è solo uno degli elementi in ballo. Ci sono le stanze tra i vigneti – una dozzina, nuovissime, frutto del recupero di antiche case coloniche – base ideale per tour alla scoperta di questa parte d’Italia stretta tra la Cattedrale di Avellino e le vigne ultracentenarie di Taurasi, il Santuario di Montevergine e il Castello normanno di Ariano, i borghi di Summonte e Nusco e le colline da esplorare in bici o a cavallo o magari seguendo percorsi di trekking.
C’è un ristorante – un tempo si chiamava Marennà, oggi diventato San Gregorio – che da solo è una destinazione per chi transita in questa zona. Oggi alla guida della cucina c’è Antonio Minichiello, anche se la presenza di Marco Gallotta (confidente, amico e mentore più che semplice consulente) è sempre percepibile per via di quell’approccio alla dispensa e di quell’orto curato, amato e perennemente celebrato nei piatti ma prima ancora nel paesaggio che alterna orticole, aiuole, erbe aromatiche, alberi da frutto secondo i dettami di un tipo di agricoltura che mira a rigenerare suoli e biodiversità. Conseguenza diretta è un paniere rigoglioso e identitario che racconta il territorio e la storia di questo luogo che combina la sua anima rurale con un amore mai celato per il design, evidente nelle etichette dei vini firmate da Massimo e Lella Vignelli, nei tavoli del ristorante disegnati ad hoc (anche se non mancano lunghi tavoli di recupero), nei progetti architettonici.
Nel ristorante, firmato da Roberto Liorni, le enormi vetrate consentono una vista suggestiva sui due cru dell’azienda, mentre un guscio di rami di castagno al centro della sala crea una struttura impressionante, il Nido, imponente area riservata di 4 metri d’altezza e 13 di circonferenza, sommelier’s table che celebra il rito del vino e – ancora una volta – il dialogo costante tra dentro e fuori.
Il connubio tra vino e di design, che oggi pare familiare, qui è storia antica: nasce agli inizi del 2000, quando sono stati chiamati la giapponese Hiraku Mori e l’irpino Maurizio Zito a ridisegnare la cantina (tra le prime d’autore in Italia, con tanto di passaggi alla Biennale di Venezia) perché raccontasse, anche nel profilo estetico, la nuova vita di questa azienda, determinata a estendere il suo impegno al di fuori di quello enologico, diventando un laboratorio di idee e cultura. Il pallino per l’architettura, il design, il bello c’era già lì, in perfetta armonia con il sentimento pieno per la natura.
E poi c’è l’arte, non un vezzo estemporaneo ma una passione ormai ultradecennale che con il progetto BeCurious ha creato collaborazioni e connessioni, incontri e riflessioni con alcuni degli artisti più interessanti di questi anni: da Mimmo Jodice che ha inaugurato questo ciclo di fitti dialoghi (sua l’installazione Immaginazioni) a Vedovamazzei (con l’opera Colature), passando per Collezione di Acquerelli di Marinella Senatore a Il canto della terra del romano Pietro Ruffo. Istallazioni, interventi, opere che oggi sollecitano lo sguardo e le riflessioni di chi in questi spazi vive e lavora, per cercare di indagare il fitto legame tra l’uomo, la terra, il vino. Con il valore aggiunto, mai secondario, di un impegno per la comunità, con il sostegno alla Fondazione di Comunità San Gennaro; non a caso sono società benefit..
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