Niente bottiglie, niente distribuzione e zero vendite online. Per assaggiare Ga.Beer, bisogna salire fino al Rifugio Lavarella, nel cuore delle Dolomiti, a oltre duemila metri di altitudine sull’altopiano di Fanes, in Alto Adige. È qui che Gábor Sogorka, cuoco del rifugio e oggi anche birraio, ha dato vita a un piccolo birrificio alpino, il più alto d’Europa, dove la birra artigianale è prodotta con l’acqua di sorgente che arriva direttamente dalla montagna.
«Mio marito ha sempre avuto interesse per tutto ciò che è fatto in casa», racconta Anna Frenner, moglie di Gábor, la cui famiglia gestisce il rifugio dal 1912. «Dopo aver frequentato un corso da sommelier della birra, ha iniziato a produrne per la nostra famiglia, riscuotendo un gran successo. Così ha pensato che potesse avere senso farne un po’ di più». La svolta è arrivata nel 2018: un inverno particolarmente rigido ha costretto la famiglia a sostituire le vecchie tubature che portano l’acqua dalla sorgente al rifugio e le analisi effettuate hanno rivelato una qualità perfetta per la produzione brassicola. È stato il segnale giusto per fare il salto: una volta acquistato un impianto semi-professionale, insieme al suocero, Gábor inizia a progettare il microbirrificio.
Lo spazio è minimo – appena 25 metri quadrati in cantina – e la logistica tutt’altro che semplice. Il rifugio non è raggiungibile in auto, quindi tutto l’impianto, dai tini ai fermentatori, viene trasportato in elicottero e assemblato in loco mentre gli ingredienti vengono ordinati in grandi quantità e accumulati prima dell’inizio della stagione. Nonostante le difficoltà, a gennaio 2019 viene spillata la prima birra e nel 2022 arriva un impianto da 500 litri a cotta, che permette di aumentare la capacità produttiva a qualche decina di ettolitri l’anno. Ora la produzione segue i ritmi delle stagioni: si intensifica nelle settimane che precedono l’alta stagione per fare scorta e continua su base settimanale durante l’estate per non rimanere mai senza birra.
Il nome Ga.Beer è un gioco di parole tra “Gábor” e “beer”. Fin dall’inizio la scelta è stata netta: niente imbottigliamento, niente distribuzione. Solo birra alla spina, collegata direttamente ai fusti, e servita al rifugio. «Per berla bisogna arrivare fin qui», dicono. «E ne vale la pena».
Oggi le birre prodotte sono quattro: tre fisse – una chiara non filtrata in stile helles/pils, una scura tipo dunkel e una weizen di frumento – più una India Pale Ale stagionale, più amara e profumata, fatta con il luppolo coltivato dalla stessa famiglia Sogorka. Gli altri ingredienti seguono una filiera tracciabile: malto e orzo dalla Germania, lievito e luppolo (escluso quello della IPA) italiani. Il tutto nel rispetto del Reinheitsgebot, la legge tedesca della purezza, che consente l’uso solo di acqua, malto, luppolo e lievito. L’acqua, però, è l’ingrediente che fa la differenza. È la stessa che alimenta la centralina idroelettrica del rifugio e che rende l’intero processo produttivo autonomo e sostenibile. Una birra fatta in alta quota, con risorse locali e energia pulita.
Certo, non mancano le difficoltà tecniche. A 2.000 metri l’acqua bolle a una temperatura più bassa rispetto al livello del mare, e serve tempo per calibrare le procedure. Ma tra prove, errori e aggiustamenti, oggi la Ga.Beer ha trovato il suo equilibrio: una piccola produzione con un’identità chiara, strettamente legata al territorio e al contesto in cui nasce. Per gustarla bisogna salire. Ma chi lo fa, difficilmente se ne dimentica.
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