Overtourism in vetta

Like, selfie, sovraffollamento: così la montagna collassa sotto il peso dei social

Perché l’overtourism alpino non è colpa soltanto degli influencer, ma di un sistema che ha promosso una montagna da consumare, non da conoscere

  • 15 Agosto, 2025

Cerca “Lago di Braies” su Instagram e troverai trecentomila foto simili: canoe sull’acqua, il pontile in legno, abiti svolazzanti. È l’immagine-simbolo di un fenomeno che ha cambiato il volto delle montagne: l’overtourism alimentato dai social. A denunciarlo, insieme a ambientalisti e amministratori locali, è anche Reinhold Messner, che in una recente intervista ha parlato di “montagne rovinate da auto, selfie e influencer” e ha chiesto “più rispetto per questi luoghi”. Negli ultimi dieci anni, la viralità di pochi spot “instagrammabili” ha generato code sui sentieri, pressioni ambientali insostenibili e un rapporto sempre più superficiale con la montagna, ridotta a sfondo perfetto per una foto e poco altro.

Da instagram alla folla: quando una foto scatena un esodo alpino

Drei Zinnen or Tre Cime di Lavaredo with reflection in lake at sundown, Dolomites, South Tirol, Italian Alps, Europe

In Italia, l’algoritmo ha trovato terreno fertile. Pochi luoghi come il Lago di Braies raccontano bene la trasformazione da angolo silenzioso a icona iper-frequentata. Prima che la fiction Un passo dal cielo e la potenza virale di Instagram lo mettessero al centro del mirino, era una meta da cartolina per un turismo di nicchia. Poi, tra luglio e settembre 2018, sono arrivati 1,2 milioni di visitatori in tre mesi, con un picco di 17.874 presenze in un solo giorno.
Poco distante, il Lago di Sorapis è diventato in pochi anni il set preferito di Instagram. Il sentiero CAI 215 che parte dal Passo Tre Croci, pur essendo classificato come escursione di media difficoltà, è stato raccontato dagli influencer come una “passeggiata panoramica”, attirando migliaia di persone spesso impreparate. Nei weekend estivi, il flusso costante di escursionisti crea veri e propri ingorghi sui tratti esposti, con code per scattare la foto sullo specchio d’acqua turchese. La conseguenza? Sentiero eroso, sporcizia lasciata lungo il percorso e un aumento significativo degli interventi del Soccorso Alpino.
Anche le Tre Cime di Lavaredo, già note al turismo internazionale, hanno visto l’effetto moltiplicatore dei social: le immagini delle Tre Cime all’alba o al tramonto hanno consolidato la loro fama come sfondo perfetto, ma hanno anche concentrato l’afflusso in fasce orarie critiche, con parcheggi saturi e sentieri congestionati. In tutti questi casi, la dinamica è la stessa. Un luogo instagrammabile diventa virale, i flussi si impennano, le amministrazioni intervengono con regole e ticket per evitare il tracollo. Ma spesso le misure arrivano quando la trasformazione è già avvenuta: l’immagine della montagna come set è ormai impressa nell’immaginario e il richiamo dell’algoritmo continua a funzionare.

Non solo influencer: territori e strutture che hanno alimentato l’onda

Dare tutta la colpa agli influencer è comodo, ma non basta a spiegare la portata del fenomeno. In molte località alpine italiane, le amministrazioni locali, gli enti di promozione turistica e perfino le strutture ricettive hanno cavalcato l’onda della viralità, talvolta contribuendo a creare il problema che oggi denunciano. Il Lago di Braies, a esempio, è stato per anni al centro di campagne promozionali che lo ritraevano come “il gioiello delle Dolomiti”, senza preoccuparsi di distribuire i flussi su aree meno note. La sua immagine è stata usata in spot, fiere internazionali e cataloghi, fino a renderlo un’icona globale. Secondo un’analisi pubblicata su Montanarium, molte DMO (Destination Management Organization) hanno invitato creator digitali a realizzare contenuti ad alto impatto visivo, spesso senza alcuna linea guida sul racconto del territorio o sul rispetto delle norme locali. L’obiettivo era chiaro: ottenere in poche ore una visibilità che anni di fiere e brochure non avrebbero garantito. Il problema è che queste operazioni hanno promosso un turismo mordi e fuggi, attratto dal singolo spot e poco propenso a soggiornare, spendere e conoscere la cultura locale.

La politica locale ha avuto le sue responsabilità. In Alto Adige, ad esempio, la decisione di mantenere aperti tutti i canali promozionali anche dopo i primi segnali di sovraffollamento è stata motivata, almeno in parte, da ragioni economiche: i picchi di presenze hanno garantito entrate record per parcheggi, ristorazione e impianti di risalita. In certi casi, come a Seceda, la pressione dei flussi è stata tale che i proprietari di terreni privati hanno installato tornelli a pagamento per regolare l’accesso alle zone più fotogeniche.
Nemmeno le certificazioni internazionali sono immuni dalle critiche. Alcune voci, come quella del Comitato passi dolomitici, hanno proposto di rinunciare al riconoscimento UNESCO per ridurre il turismo “cartolina” che ne deriva. La direttrice della Fondazione Dolomiti UNESCO ha risposto ricordando che la Fondazione non ha potere gestionale, ma solo di sensibilizzazione, la gestione resta agli enti locali. Il risultato è che, per anni, il sistema ha beneficiato di questa corsa all’immagine: alberghi pieni, parcheggi esauriti, biglietti venduti. Solo quando il disagio per residenti e ambiente ha superato la soglia di tolleranza sono arrivate le prime misure restrittive. Ma fermare una tendenza alimentata per anni è come provare a svuotare un lago con un bicchiere: richiede tempo, risorse e, soprattutto, una volontà politica che non sempre c’è.

I problemi dell’overturismo in vetta

Molti dei problemi legati all’overtourism alpino hanno una radice comune: gran parte dei visitatori che affollano le località più virali non sono escursionisti abituali né viaggiatori interessati alla montagna in sé, ma persone che condizionate dai social vogliono a tutti i costi essere in un posto che hanno visto su Instagram. È un turismo “di posa”, che considera la natura come sfondo temporaneo, senza conoscerne le regole o i rischi. Questo approccio superficiale ha conseguenze dirette: i sentieri vengono percorsi con calzature inadatte, le giornate in quota pianificate senza tener conto del meteo, le regole di base dell’ambiente alpino ignorate.
Il risultato è un impatto ambientale e sociale difficile da sostenere. I sentieri subiscono erosioni accelerate, le aree di sosta e i parcheggi vanno in saturazione, i rifiuti si accumulano anche in zone remote. Le comunità locali devono fronteggiare strade bloccate, servizi sovraccarichi, aumento dei costi di vita e perdita di accesso a luoghi che per decenni erano parte della quotidianità. L’afflusso massiccio, concentrato in pochi spot, non solo riduce la qualità dell’esperienza per chi visita, ma mette sotto pressione l’intero ecosistema.

Sul fronte sicurezza, la mancanza di consapevolezza pesa ancora di più. Nell’estate 2025, il Soccorso Alpino e Speleologico ha registrato 83 morti e 5 dispersi in un solo mese, con un aumento del 20% rispetto agli anni precedenti. Molti interventi riguardano persone colte da maltempo improvviso, bloccate da stanchezza o incapaci di proseguire, spesso a causa di un equipaggiamento inadeguato o della sottovalutazione dei percorsi. “Sempre più turisti si avventurano senza preparazione. Alcuni rischiano la vita per una foto”, ha dichiarato Walter Cainelli al Corriere dell’Alto Adige, presidente del Soccorso Alpino Trentino.
Questo modello di fruizione non è sostenibile: crea danni ambientali, fratture sociali e situazioni di pericolo che ricadono sulla collettività. E finché la montagna continuerà a essere venduta come un set a portata di tutti, senza comunicare la necessità di rispetto, preparazione e gradualità, il divario tra la sua immagine ideale e la sua realtà concreta non potrà che aumentare.

Dai ticket ai tetti di posti letto: le contromisure (e i loro limiti)

Negli ultimi anni, le località alpine più sotto pressione hanno iniziato a sperimentare strumenti per contenere i flussi. In alcuni casi si è scelto di contingentare gli accessi: al Lago di Braies, ad esempio, nei mesi estivi si entra solo prenotando un parcheggio o un posto sulla navetta, mentre alle Tre Cime di Lavaredo si sta testando un sistema di prenotazione anticipata per ridurre il traffico e l’affollamento nelle ore di punta. In Alto Adige si è andati oltre, fissando un tetto massimo al numero complessivo di posti letto turistici, con l’obiettivo dichiarato di frenare l’espansione di strutture che alimentano il turismo di massa.

Accanto alle restrizioni fisiche, si stanno provando anche soluzioni tecnologiche. Touristinfo.ai, lanciato proprio in Alto Adige, è un assistente virtuale che elabora in tempo reale dati su traffico, parcheggi e affollamento per consigliare mete alternative meno conosciute. Sono segnali di un cambio di rotta, ma ancora parziali: agiscono sull’afflusso immediato, senza intaccare il modello di comunicazione e promozione che ha reso virali pochi luoghi, trasformandoli in icone da replicare. Finché il messaggio continuerà a vendere la montagna come un set sempre pronto, i visitatori troveranno altri scenari fotogenici da sovraccaricare, e il ciclo ricomincerà altrove.

Oltre l’algoritmo: restituire senso alla montagna

Fermare l’overtourism non significa soltanto introdurre ticket o limiti di accesso: serve un cambio di prospettiva. La montagna non può essere ridotta a un’immagine perfetta da consumare in pochi secondi, ma va raccontata e vissuta per ciò che è davvero: un ambiente complesso, fragile e che richiede preparazione, tempo e rispetto. Finché istituzioni, operatori, anche della comunicazione, e viaggiatori non sposteranno l’attenzione dal “luogo da mostrare” al “luogo da conoscere”, i flussi continueranno a inseguire l’ultima meta virale, replicando gli stessi danni altrove. Restituire senso alla montagna significa rallentare, ascoltare e accettare che la bellezza non sempre sta nella foto migliore, ma nell’esperienza più autentica.

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