Turismo consapevole

Quando posti su Instagram aggiungi il geotag? Forse stai sbagliando

Il geotag sul banco degli imputati: nasce il movimento per salvare i luoghi fragili

  • 18 Agosto, 2025

Il dibattito sull’impatto dei social sui luoghi naturali si è fatto sempre più acceso, complice la capacità di Instagram e TikTok di trasformare in poche ore una meta semi-sconosciuta in un’attrazione di massa. Dentro questo confronto, il tema del geotagging è diventato un fronte a sé: per alcuni, indicare con precisione il luogo di una foto è un atto di trasparenza e condivisione; per altri, è una condanna a morte per sentieri, laghi e panorami fragili. La discussione, già esplosa negli Stati Uniti, è arrivata anche in Europa e ha trovato un protagonista autorevole: il Leave No Trace Center for Outdoor Ethics, che invita a “pensare prima di geotaggare”.

Cos’è il geotagging e perché è controverso

Il geotagging è la funzione che permette di associare a un contenuto social la posizione geografica esatta in cui è stato realizzato. Una comodità nata per orientare e informare, ma che nell’era di Instagram e TikTok si è trasformata in un potente moltiplicatore di popolarità per destinazioni e micro-destinazioni.
Il problema? L’effetto calamita. Basta un post virale con coordinate precise per generare un picco improvviso di visite, anche in luoghi poco attrezzati o ecologicamente delicati. Il risultato è spesso l’overtourism “mordi e fuggi”: persone che arrivano per rifare la foto vista online, senza preparazione o rispetto per il contesto, lasciando tracce ben più pesanti di quelle digitali.

Il fronte del “no geotag”

Il Leave No Trace e molti attivisti outdoor sono chiari: meno dettagli si danno, meglio è. Nel loro manifesto l’invito è quello di sostituire il nome preciso di un posto con riferimenti generici come “Alpi Occidentali” o “Trattoria nelle Dolomiti”, per ridurre la pressione sui luoghi più fragili.
La logica è semplice: meno il luogo è facile da trovare per chi non è realmente interessato all’escursionismo, minore sarà il rischio di danni.

Il fronte del “geotag sì”

Non tutti però vedono questa strategia come una vittoria per l’ambiente. Per alcuni, omettere la posizione esatta rischia di trasformarsi in una forma di “gatekeeping”, ovvero una barriera invisibile che favorisce solo chi ha conoscenze pregresse o accesso a reti di appassionati.
Voci come quella di Danielle Williams, fondatrice di Melanin Base Camp, sostengono che negare informazioni precise perpetua l’idea che la montagna, e la natura in generale, sia un territorio riservato a chi appartiene a determinati gruppi sociali o culturali. In quest’ottica, il geotag diventa uno strumento di inclusione.

Forse il punto non è scegliere tra geotag sì o no, ma chiederci come viviamo i luoghi che visitiamo e come li restituiamo agli altri. Vale per un sentiero di montagna, per una spiaggia remota o per un ristorante nascosto: ogni post è un invito e ogni invito porta con sé una responsabilità. Possiamo decidere di raccontare non solo l’immagine perfetta, ma anche il contesto, le regole non scritte, la fragilità di ciò che stiamo condividendo. Perché viaggiare, mangiare e postare può essere ancora un piacere, se impariamo a farlo con più consapevolezza e meno consumo.

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