L’appuntamento è al molo di Chioggia, dove passerà una barca a prendere gli ospiti, una mezz’ora di viaggio o forse meno, fino a che si vede in lontananza una specie di chiatta in mezzo alla laguna, come un rifugio in mezzo al mare tra Chioggia e Pellestrina.
Tant’è che se il tempo è buono ci si può anche fare il bagno, ma non sarebbe che un corollario di un’esperienza che mira a far vivere questo ambiente in modo non convenzionale. Meglio piuttosto lasciarsi andare a quella sensazione di entrare in bolla – isolata nel tempo e nello spazio – che si innesca non appena si scende dalla barca.
Nel casone c’è una lunga tavola apparecchiata, dove ognuno prenderà il proprio posto, ma prima c’è il tempo per un bicchiere e due chiacchiere sulle sdraio vista mare – tutt’intorno non c’è che acqua – familiarizzando nell’attesa. Lontano dalla terraferma, sembra di guardare il mondo da fuori, in un cortocircuito che è parte stessa di questo «convivio acquatico».
Siamo nel Cason da Sandro dove per tutta l’estate, nei fine settimana, c’è Tocia. Difficile dire chi sarà ai fornelli, però, perché Tocia è un collettivo che compie azioni gastronomiche. Un’entità di difficile definizione creata da Marco Bravetti, cuoco expat dai ristoranti tradizionali che qualche anno fa ha deciso di cercare un altro paradigma gastronomico. Così è nato Tocia, che in veneziano indica il sugo e anche quel gesto familiare di intingervi un pezzo di pane: «toh, tocia!» è già un invito all’inzuppo.
Tocia è un gruppo di cuochi senza cucina ma con tante idee che indagano il rapporto tra spazio antropizzato e spazio naturale nella laguna, quell’ambiente fragilissimo e potente, unico come lo sono certi suoi prodotti. Si tratta di una formazione mutevole: nel loro operare incontrano artigiani o antropologi, ricercatori, artisti, contadini, pescatori, attivisti a vario titolo impegnati a costruire un modello per vivere Venezia e il suo circondario in modo più etico, creativo e rispettoso; anche se poi – nomadi come sono – “i Tocia” li trovi spesso in qualche evento gastronomico in giro per l’Italia, in situazioni di incontro e riflessione sulla società.
Usano il cibo e la convivialità come linguaggio, strumento per scalfire le coscienze, momento ludico indispensabile per generare pensieri e relazioni sempre nuove: alla loro tavola sono anche le parole a nutrire gli ospiti per alimentare i pensieri. Per questo la salsa Tocia – una salsa madre piena zeppa di enzimi e batteri, piena zeppa di vita – rappresenta la loro traduzione gastronomica.
La trovi nei piatti, insieme alle specie tipiche della laguna, quelle neglette che hanno poco mercato che su questo tavolo hanno la stessa dignità delle ostriche, prodotto lussuoso – sì – ma democratizzato dall’appartenenza allo stesso ecosistema, poiché allevato dal Cason da Sandro, nelle strutture di legno a qualche metro di distanza.
Allevamenti di ostriche
Le piante della laguna non mancano mai ad arricchire in modo profondo e sorprendente i piatti come il Crithmum maritimum, finocchietto di mare che da qualche parte si chiama bacicci o paccasassi, alofita (non dimenticare la salinizzazione di queste terre) protagonista di una panzanella senza eguali.
Le canocchie sono regine, soprattutto quando accompagnate da quel fondo intenso che apre nuovi scenari gustativi, e la laguna è ancora una volta lì, a ogni boccone, con i suoi aromi e le profondità abissali.
Ci sono poi le alghe spesso a punteggiare i piatti ma non senza un richiamo al paradosso che le vede parte integrante del paesaggio della laguna ma non della sua cultura gastronomica e neanche della sua economia poiché quelle che crescono qui (aliene ormai naturalizzate), non possono essere raccolte, vendute, mangiate a differenza di quanto si fa con il granchio blu. Crostaceo alieno prima, oggi sempre più parte dell’alimentazione: è un invito ad accogliere i cambiamenti come una potenzialità. Di cui Venezia, crocevia di genti, merci e culture, non può che essere un avamposto.
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