Croccante fuori, filante dentro, intriso di sciroppo profumato: il knafeh (pronunciato kunafa) è molto più di un dolce. Nato tra i vicoli di Nablus, in Palestina, dove viene sfornato in teglie enormi e servito bollente a chi affolla le pasticcerie, è oggi uno dei dessert più riconoscibili del Medio Oriente. Basta un morso per capire perché: la trama sottile della pasta kataifi dorata al burro, il cuore di formaggio morbido e appena sapido e il tocco aromatico dell’acqua di fiori d’arancio lo rendono irresistibile.
Le prime tracce di questo dolce compaiono già nei ricettari arabi medievali, ma è tra XIX e XX secolo che a Nablus – in Palestina – il knafeh diventa simbolo di un’intera città. La versione classica prevede tre elementi: la pasta kataifi, sottilissimi fili di pasta simili a capelli d’angelo che, una volta cotti, diventano croccanti e dorati; il formaggio nabulsi, fresco e leggermente salato, che fonde senza filare troppo, creando una consistenza cremosa; infine lo sciroppo di zucchero, arricchito con acqua di fiori d’arancio o di rose, che conferisce dolcezza e profumo.
Nel tempo il dolce si è diffuso in tutto il Levante, adattandosi alle usanze locali: in Libano e Siria è spesso arricchito con panna; in Turchia prende il nome di künefe e viene servito con kaymak, una crema densa e burrosa simile a una panna coagulata; in Egitto si utilizza il semolino al posto della kataifi, ottenendo una superficie più compatta e granulosa.
Oltre alle varianti, ciò che resta comune è la ritualità del consumo. Il knafeh si gusta caldo, tagliato in porzioni generose da condividere, spesso accompagnato da tè o da caffè, che in Palestina viene tradizionalmente aromatizzato con cardamomo. È il dolce delle grandi occasioni: feste religiose, matrimoni, incontri familiari.
In strada come in casa, rappresenta un momento di socialità e di legame con la tradizione. Non a caso, nelle città della diaspora mediorientale – da Amman a Beirut, fino a Berlino o New York – le pasticcerie che servono knafeh sono punti di riferimento, luoghi in cui ritrovare i sapori dell’infanzia e rinsaldare un senso di appartenenza.
Negli ultimi anni il dolce ha conosciuto una nuova popolarità anche al di fuori del mondo arabo. Chef e pastry chef internazionali lo hanno riscoperto, reinterpretandolo in versioni moderne: monoporzioni più leggere, dessert destrutturati, abbinamenti con gelati o creme alla frutta secca. Una rinascita che, pur con le dovute licenze creative, conferma l’appeal universale di un dolce che riesce a raccontare una storia millenaria attraverso profumi e consistenze.
Replicarlo a casa, pur con qualche adattamento, è possibile. Il formaggio nabulsi è difficile da reperire in Italia, ma un mix di mozzarella ben asciutta e ricotta vaccina offre un risultato simile. Basta rivestire una teglia con metà della pasta kataifi imburrata, distribuire sopra il formaggio, coprire con la kataifi restante e cuocere a 200 °C per 20-25 minuti, finché la superficie diventa dorata e croccante. A parte, preparare uno sciroppo con zucchero, acqua, succo di limone e acqua di fiori d’arancio, da versare sul dolce appena sfornato. Una spolverata di pistacchi tritati e tostati completa l’opera.
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