La conquista dell’Italia è stata per Riccardo Giraudi, italiano, un’impresa quasi garibaldina. Lui, figlio di Erminio, che ha fatto fortuna con l’import/export della carne, è nato professionalmente a Montecarlo dove ha fondato vent’anni fa l’insegna Beefbar che è arrivata a Milano un paio di anni fa all’interno del Portrait. In mezzo, una quarantina di ristoranti in ogni parte del mondo.
Aveva paura della sfida italiana?
“Ho sempre desiderato arrivare in Italia, ma volevo arrivarci bene e non a metà. Quando la famiglia Ferragamo mi ha proposto questo posto ho capito che dovevo averlo. C’erano altri brand concorrenti, io poi in Italia non ero molto conosciuto. Ma quel chiostro cinquecentesco, quella cappella, quando l’ho visto mi ero già immaginato tutto”.
Esiste uno specifico italiano di Beefbar?
“Detto che all’estero Beefbar non è percepito come un marchio italiano, perché la carne non richiama l’Italia, il locale di Milano è particolarmente bello, ho fatto un lavoro particolare sull’aspetto visivo, volevo che il locale fosse un omaggio a Luigi Caccia Dominioni, che era un amico di mio padre, e ai caffè storici milanesi”.
Il Beefbar Milano
Nessuna preoccupazione di fallire proprio in Italia?
“Ecco, proprio non avrei potuto. Diciamo che la mia paura era voluto venire in Italia. All’inizio avevamo paura, i coperti sono pochi rispetto agli altri locale nel resto del mondo. 74 posti sono pochissimi per noi. Ma ora dico meglio così, il locale è sempre pieno, la gente deve aspettare un po’, è difficile prenotare… E poi Milano è stata la prima città dove ho aperto anche un bar, Rumore. Ha funzionato, lo riproporrò altrove. Milano è una piazza dal grande futuro”.
A livello di menu il ristorante italiano è diverso dal resto del mondo?
“Noi diamo sempre grande spazio alla personalizzazione dei vari ristoranti secondo tocchi locali nell’architettura e nel menu. In Italia sto pensando a un grande cambiamento riguardante la pasta, voglio diventare per la pasta quello che Langosteria è per il pesce, certo dovrò fare grandi lavori in cucina. Ma la pasta permetterà di abbassare anche il ticket”.
Ha in programma altre aperture in Italia?
“Certamente, con Beefbar ma anche con gli altri brand. Ho appena acquistato i diritti per Zeffirino che è un ristorante mitico di Genova del 1939, lo stiamo reimpacchettando, ho comprato African Queen che è un ristorante francese anni Sessanta, un cinese molto buono, Song Qi. Arriveremo in Italia con alcune di queste insegne. L’Italia è un Paese difficile, soprattutto per trovare personale, ma non puoi non esserci, soprattutto per uno come me che lavora per la passione”.
La sala di Beefbar Milano
Com’è nato Beefbar?
“Ho iniziato a Monte-Carlo, dove vent’anni fa c’era o lo stellato francese o la trattoria italiana. La nostra proposta era semplice, perfino noiosa, vendevamo bistecche con il purè. Ma non c’era concorrenza e il locale ha funzionato subito”.
E poi?
“All’inizio mi interessava solo far crescere il mercato locale, negli anni successivi ci siamo ingranditi aprendo altri ristoranti nel principato, accaparrandoci parti di mercato che mancavano. Poi, dopo una quindicina di anni, ho capito che Beefbar era diventato un concetto esportabile e non solo un bel posto”.
Qual è stato il momento della svolta?
“Abbiamo aperto qualche locale in Russia, all’epoca a Monte-Carlo c’erano molti russi, ma la svolta è stata quando Nusret (Gokce, ovvero Salt Bae) ha iniziato a prendere in mano tutto lui. Lui aveva la storia, aveva la pr. Così abbiamo cambiato completamente rotta: abbiamo puntato su un prodotto diverso, di qualità, su carni americane, australiane, giapponesi, che fino ad allora nessuno trattava, abbiamo cercato di far conoscere tagli secondati, non si può mangiare solo il filetto, abbiamo deciso di rendere la steakhouse più leggera, abbiamo preso otto chef e abbiamo chiesto loro di rielaborare ricette poverissime. Lusso e street food. Questo contrasto ha fatto esplodere il marchio”.
L’Amatriciana di manzo affumicato
Che poi non è il momento storico migliore per fare carne…
“Diciamo che non è il prodotto più sexy al mondo, è come se la carne avesse il peggiore pr del mondo, non sappiamo comunicare, non sappiamo difenderci, sempre alla mercè degli attacchi dei vegani, dei vegetariani, ci massacrano sempre. Alla fine ci siamo salvati grazie al prodotto”.
Lei ha una quarantina di ristoranti in una ventina Paesi del mondo. C’è un Paese dove il format non ha funzionato?
“Diciamo che abbiamo avuto una brutta esperienza in Arabia Saudita, noi abbiamo molti clienti sauditi che fanno parte della nostra community, ma lavorare lì è molto differente. Invece mi ha sorpreso positivamente New York, mi dicevo: ma dove andiamo nella patria delle steackhouse? E invece è andata molto bene, hanno percepito la nostra differenza”.
Il prosciutto di manzo
Lei ha fatto riferimento prima alle difficoltà di trovare personale. Come la vivete?
“E’ molto difficile trovare personale e soprattutto di qualità. In particolare in Europa. E’ una piramide, devi prima di tutto avere una buona location, poi un brand forte, e alla fine c’è l’execution. E lì diventi quasi schiavo di chi fa l’ultimo miglio. Uno ti può rovinare in due minuti il lavoro di vent’anni”.
E quindi?
“E quindi training, training, training”.
Niente da mostrare
Reset© Gambero Rosso SPA 2025 – Tutti i diritti riservati
P.lva 06051141007
Codice SDI: RWB54P8
registrazione n. 94/2021 Tribunale di Roma
Modifica impostazioni cookie
Privacy: Responsabile della Protezione dei dati personali – Gambero Rosso S.p.A. – via Ottavio Gasparri 13/17 – 00152, Roma, email: [email protected]
Resta aggiornato sulle novità del mondo dell’enogastronomia! Iscriviti alle newsletter di Gambero Rosso.
Made with love by
Programmatic Advertising Ltd
© Gambero Rosso SPA – Tutti i diritti riservati.
Made with love by Programmatic Advertising Ltd