In Italia, il cibo è una cosa seria… ma i nomi dei piatti, a volte, sembrano usciti da una commedia. Tra una puttanesca dal sapore deciso, una zizzona di Battipaglia, che più che una mozzarella sembra una provocazione, e gli strozzapreti, che mischiano cucina e anticlericalismo, la nostra tradizione gastronomica è piena di titoli curiosi, piccanti o decisamente sopra le righe. Ma tra tutte queste stranezze, ce n’è una che sembra davvero esagerare, non solo per il nome, ma per l’immagine che evoca: la pasta chiamata in dialetto “il secchio della spazzatura”. Un piatto che, a sentirlo nominare, fa più pensare al bidone dell’umido che a un pranzo. E invece… dietro questa definizione brutale si nasconde un piccolo capolavoro di sapori, storia e spirito napoletano.
Diffuso soprattutto nel periodo natalizio, il piatto era conosciuto anche come “Spaghetti della Vigilia”, poiché preparato con ingredienti avanzati dalla ricca tavola festiva, come la “ciociole”, cioè la frutta secca consumata a fine pasto: noci, nocciole, pinoli, magari anche fichi secchi o mandorle. Negli anni più recenti la sua fama è salita grazie all’attenzione dello chef Antonino Cannavacciuolo, che l’ha presentato nel programma MasterChef Italia come emblema di cucina vegetariana, antispreco e radicata nella tradizione napoletana.
Un fattore chiave dell’identità di questo piatto è la cura nella scelta degli ingredienti: la pasta rigorosamente è spaghetti di Gragnano, le noci di Sorrento, le nocciole di Giffoni, le olive di Gaeta, i capperi e i pomodorini del piennolo del Vesuvio, tipici dell’agricoltura locale, raccolti in estate e conservati appesi in grappoli. Non esistendo una versione “ufficiale”, le proporzioni degli ingredienti variano per adattarsi a ciò che si ha a disposizione.
Foto credit: Facebook, Partenope Fra
Per preparare ‘O sicchio d’a munnezza si inizia mettendo a bagno l’uvetta in acqua tiepida per farla rinvenire, mentre si tritano finemente le noci, le nocciole e i pinoli insieme a un po’ di prezzemolo fresco. In una padella capiente si fa imbiondire uno spicchio d’aglio in olio extravergine d’oliva, poi si aggiunge la frutta secca tritata e l’uvetta ben scolata, lasciando insaporire per qualche minuto a fuoco dolce.
A questo punto si uniscono i pomodorini tagliati a metà e si lasciano appassire lentamente, in modo che rilascino il loro sugo dolce e intenso. Per completare il condimento si possono aggiungere olive nere denocciolate e qualche cappero dissalato, insaporendo il tutto con una spolverata di origano o, in alternativa, altro prezzemolo fresco tritato.
Nel frattempo, si cuociono gli spaghetti in abbondante acqua salata e si scolano al dente, conservando un po’ dell’acqua di cottura. La pasta viene poi saltata nella padella con il condimento, mescolando bene per amalgamare i sapori e aggiungendo, se necessario, un mestolo d’acqua di cottura per ottenere una consistenza cremosa. Il piatto si serve caldo, completato da un filo d’olio a crudo e, a piacere, ancora un tocco di erbe aromatiche fresche.
L’importanza del piatto va ben oltre il sapore: incarna lo spirito di una cucina popolare consapevole, capace di trasformare gli scarti in una creazione gustosa, rispettosa delle materie prime e delle stagioni. Il nome è un esplicito richiamo alla sua origine povera, ma la sua essenza è nobile perché valorizza ciò che rischierebbe di finire nei rifiuti.
Foto copertina credit: Facebook, E Curti
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