Dominique Crenn è la prima donna negli Stati Uniti a conquistare tre stelle Michelin nel 2018 per il suo Atelier Crenn a San Francisco, ed è oggi simbolo di un cambiamento, dentro e fuori le cucine. Una figura celebrata, protagonista di programmi televisivi e simbolo di una cucina colta e sostenibile, ha costruito un impianto culinario di rigore, poesia e sostenibilità, infrangendo il soffitto di cristallo della gastronomia nordamericana e offrendo una visione inclusiva e responsabile. Ma il suo percorso non è lineare: l’ascesa stellare si alterna a lotte personali, una grave malattia, separazioni, scelte di filosofia alimentare divisive. In questo ritratto, si alternano luci e ombre che restituisce una figura complessa e mai scontata.
Dominique Crenn nasce il 7 aprile 1965 a Saint-Germain-en-Laye, in Francia. Adottata a 18 mesi da Allain e Louise Crenn, cresce tra visite a ristoranti internazionali e l’esperienza di un’estate trascorsa in fattoria, plasmata dai piatti della madre e dai sapori della Bretagna. Dopo una laurea in economia e un master in business internazionale, sceglie la via della cucina e si trasferisce a San Francisco alla fine degli anni Ottanta.
Il primo approdo è Stars, il ristorante di Jeremiah Tower, uno dei pionieri della cosiddetta “cucina californiana” insieme ad Alice Waters. È un’esperienza decisiva per la chef autodidatta che impara il mestiere direttamente sul campo. Negli anni successivi lavora all’estero, al Miyako Hotel di Osaka e poi all’Intercontinental Hotel di Jakarta, affinando competenze tecniche e capacità di gestione.
Nel 2011 apre Atelier Crenn, laboratorio personale e dichiarazione di intenti. Nei menu poca carne, zero pollo, e materie prime scelte da piccole fattorie della Bay Area. In pochi anni arrivano i primi riconoscimenti: conquista la prima stella Michelin nel 2011, la seconda nel 2013 e, nel 2018, le tre stelle che la consacrano come prima donna negli Stati Uniti a raggiungere questo traguardo. Affianca a questo progetto Bar Crenn, un wine bar stellato, e Petit Crenn, dedicato al cibo della memoria, e Boutique Crenn, pasticceria e negozio di ricercatezze.
Ma nel 2019 arriva la diagnosi di cancro al seno. Crenn affronta la malattia senza smettere di lavorare, documentando il percorso sui social, anche con immagini forti: testa rasata proprio nei giorni in cui Michelin riconferma le tre stelle al suo ristorante. Da quel momento, il suo impegno professionale si lega con quello ambientale. «Il pianeta è malato, come me», dichiara spesso. Elimina la carne e il pesce dai suoi locali, e annuncia una progressiva svolta vegetariana.
Non abbraccia il veganismo, che giudica contraddittorio rispetto alla provenienza di alcune materie prime, ma insiste sulla responsabilità del cibo nel cambiamento climatico. La sua visione ha un impatto diretto anche sul dibattito gastronomico internazionale. Atelier Crenn ottiene la stella verde Michelin per la sostenibilità come primo ristorante in USA a diventare plastic-free, e si conferma un punto di riferimento per un modello di ristorazione etica. A luglio 2025 apre nella Sonoma Valley l’azienda agricola rigenerativa Bleu Belle Farm dove coltiva gli ingredienti per i suoi ristoranti nella Bay Area.
Sul piano personale, Crenn ha due figlie gemelle nate nel 2014 da una relazione precedente, che vivono con l’ex partner Katherine Keon. Nel dicembre 2019 si fidanza con l’attrice Maria Bello. Le nozze avvengono in Messico nel 2024, tuttavia, solo un anno dopo, Bello chiede il divorzio citando “differenze insanabili”. Nel corso della sua carriera, Crenn firma due libri e appare in numerosi programmi televisivi: Chef’s Table, Iron Chef: Quest for an Iron Legend; nel 2021 lavora come consulente per il film The Menu.
Una donna forte che ha abbattuto barriere di genere, imposto una visione sostenibile e dimostrato che il linguaggio del cibo può essere poetico e politico al tempo stesso. Le sue stelle Michelin convivono con le cicatrici della malattia, con le scelte difficili e con la complessità della vita privata. Un ritratto fatto di luci e ombre, che la rende meno monumento e più umana, capace di influenzare la cucina globale proprio attraverso la sua vulnerabilità.
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