In un posto che è meglio non dire, c’è un vicolo. È un vicolo stretto, nascosto, e perfino la luce ci inciampa spaesata, ruzzolando sui ciottoli sporchi fino al cortile in fondo alla strada. Qui, ogni mattino alle nove, soffocato dai condomini d’ocra bruciata che lo circondano, il cortile si muove. Le ruote dei carrelli sgangherati e dei trolley per la spesa spezzano il silenzio in tanti piccoli trambusti inquieti, attenti a disturbare il meno possibile.
A quel punto, ogni uomo o donna del vicolo si sistema: Rafael va all’angolo destro del cortile, Beatriz a quello opposto, Isabel sotto l’albero e la signora Mavila si siede sulla panchina di marmo. Qualcuno tira fuori una barretta di wafer al cioccolato da una delle buste nere sui carrelli e il bambino l’afferra con un salto e corre all’ingresso della stradina a fare la guardia. Quando i primi immigrati, i rifugiati, le coppie di sposi e le donne vestite a lutto si mettono in fila davanti il portone del Consolato Generale del Perù dall’altra parte della strada, il profumo esplode.
La signora Mavila comincia a versare bicchieri di una sostanza calda e grumosa dalle bottiglie di plastica senza etichetta e l’aria qui intorno diventa terrosa e calda, gonfia di cannella e chiodi di garofano, chuño e zucchero di canna. Dalla lunga coda davanti al Consolato qualcuno si stacca, chiede al vicino di tenergli il posto, attraversa la strada, saluta il bambino e imbocca il vicolo con il portafoglio in mano.
È come tornare a casa: le persone si abbracciano per salutarsi, c’è chi si lamenta delle pratiche per il passaporto o per la richiesta d’asilo, c’è chi non ha nulla da sbrigare ed è venuto lì solo per parlare un po’ dell’Alianza Lima che ne perde una dopo l’altra ormai, il fútbol questi non sanno cosa sia causitas, date retta a me.
Nessuno potrebbe stare qui: siamo in Francia e qui per servire cibo in strada ci sarebbero permessi da chiedere, autorizzazioni da ricevere. Ma la signora Mavila mi chiede che prendo dal menu e tra spagnolo, francese e inglese non ci capiamo quindi sorride e decide di fare da sola.
Da uno dei sacchi neri più grandi appaiono piatti di carta e tupperware offuscati dal vapore, sacchetti di posate in busta, tovaglioli. Rafael ha steso cartoni da imballaggio aperti su tutte le panchine dello spiazzo e quelle sono le nostre tovaglie: all’improvviso ogni panchina è imbandita di piatti, dalle zuppe ai secondi di carne e ognuno in mano ha bottigliette in vetro di Inca Kola che tintinnano per i brindisi. La signora Mavila torna da me con in mano un piattino di quello che non credevo sia possibile.
È ceviche. Ne ha di vari tipi nel sacco: spigola, branzino, cernia. Le cipolle sono croccanti, il coriandolo fresco e l’aji amarillo ha l’anima di un frutto piccante e gentile, il sapore di un’euforia molle, avvinazzata.
Comincio a perdermi, come ubriaco, confondo i luoghi: mi trovo un arroz con pollo tra le mani e so di non essere più in Francia. Il riso mi riscalda e lo mangio in silenzio, come in una cerimonia, mentre la signora Mavila continua a svuotare tuppleware e contare monete. “¡Este es el cau cau!” La trippa è gialla di spezie, brodosa e splendida: lei e i tocchi di verdure palpitano di colore, scintillando accanto al riso, bianco e immacolato. Curcuma, menta, aglio, cumino ed è piccante ma di un sapore tondo e piace a tutti perché tutti hanno iniziato a dimenticarsi di dove si trovano e cosa erano venuti a fare.
Rafael chiede chi vuole l’ultima tamal e la coppia di sposi propone un altro brindisi e ci sono risate, battute, applausi ma qualcuno si affaccia dai balconi per lamentarsi del rumore, che è tanto, è vero, e forse per questo non sento il bambino urlare. La volante della police nationale ha parcheggiato proprio all’ingresso del vicolo: scendono in due. Sulla piazzetta è calato il silenzio. Con la coda dell’occhio vedo un portone alle mie spalle, che prima non avevo notato, chiudersi di scatto, sferragliando.
Intorno a me ci sono i carrelli mezzi vuoti, i trolley della spesa, i sacchi neri.
Ma sono solo.
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