Dici Vermentino e dici estate. Lo trovi lì, nei pranzi a base di pesce e verdure, nel secchiello del ghiaccio in una dimensione di puro relax, con un ritornello nelle orecchie. Tratti distintivi? Ha la fortuna di acclimatarsi benissimo vicino al mare e di traghettare le atmosfere della riviera con i suoi profumi. Insomma, un vino di gran moda e tendenza.
E se in alcuni casi il limite è una certa carenza di profondità e originalità, nei Colli di Luni, al confine tra Liguria e Toscana, se ne trovano versioni di grande carattere. Abbiamo fatto due chiacchiere con Diego Bosoni, il più importante produttore della zona. La sua vera passione? La musica.
La copertina del numero del mensile in edicola dedicata al Vermentino
La prima domanda a Diego Bosoni non può che essere questa: Cosa c’è dietro l’exploit negli ultimi anni? «Be’, è fuori discussione che ci sia un valore qualitativo importante come fondamento – risponde il titolare di Lunae – innanzitutto perché esprime qualcosa di diverso in base a dove lo si pianta (e funziona bene in diverse regioni, ndr). E poi perché la contemporaneità è il suo punto di forza: il wine lover attuale non cerca struttura e potenza, ma freschezza e facilità di beva».
Insomma, si è imposto come l’opposto di quei bianchi pesanti e legnosi che andavano bene vent’anni fa e che hanno stufato?
«Sicuramente si. Ma qui da noi non è moda: è parte integrante della storia dei Colli di Luni. E c’è stato anche un periodo in cui anche qui si cercava l’impronta del legno e la ricchezza. Ma mio padre non è mai stato amante di quello stile e da subito è andato verso qualcosa che mettesse insieme la complessità con la scorrevolezza. Oggi vedere tutta questa attenzione per questo approccio ci rende molto felici».
Quindi non temete che il fatto che il Vermentino stia crescendo un po’ ovunque possa creare inflazione e intaccare la reputazione della varietà?
«Questo pensiero c’è e se ne parla spesso con i colleghi di zona. Io credo, però, che se come Colli di Luni riusciamo a mantenere un certo livello qualitativo, non avremo problemi. Certo, ci sono ondeggiamenti legati alle tendenze di mercato, ed è probabile che, come nel caso di altre mode, ci sarà un momento in cui andrà ad affievolirsi. Ma se sai dare davvero valore a quello che fai, il rischio non esiste. L’esempio più vicino è quello della musica: i generi passano di moda, ma l’artista, se mantiene alte la sua ispirazione e la sua reputazione, non corre il rischio di finire male!»
Il comparto vino vive un momento complicato. Voi, che producete un “vino di tendenza”, cosa pensate di questa situazione?
Sarebbe sciocco dire che siamo immuni. Ma ci riteniamo fortunati: probabilmente proprio per la capacità di costruire una reputazione solida, manteniamo una certa stabilità. Ma c’è anche da dire che, a differenza di altri, abbiamo avuto una crescita molto regolare, senza picchi estremi.
La maggior parte delle aziende Italiane ha investito tantissimo sull’internazionalizzazione. Invece voi vendete l’80% della produzione in Italia
«Noi partiamo da qui: abbiamo cominciato dalla zona che ci circonda e ci siamo espansi gradualmente nei territori vicini, Toscana e Liguria in primis, poi in Italia. All’estero siamo arrivati molto più tardi».
Qual è il grande vantaggio e il grande svantaggio di lavorare principalmente in Italia?
«Il vantaggio è mantenere una catena di relazioni umane che difficilmente riesci a creare fuori. Il rischio con l’export è di spersonalizzarsi e slegarsi dal consumatore finale, non sapendo dove finisce effettivamente il tuo vino. Il problema è l’estrema frammentazione: vendi piccoli quantitativi a un numero enorme di clienti. Ma noi siamo abituati perché anche la nostra vigna è così: gli oltre 50 ettari di proprietà – più altri dei conferitori – sono tutti spezzettati in piccoli appezzamenti».
Come ci sente ad essere il più grande produttore in una denominazione – e in una regione – di piccoli vignaioli?
«In realtà le dimensioni non sono mai state il nostro cruccio: lavoriamo come tutti i vignaioli liguri. Certo, dobbiamo mandare avanti un’azienda da oltre 500mila bottiglie l’anno. E comunque lo facciamo da contadini: non abbiamo un background imprenditoriale. Siamo i più grandi in Liguria, ma in altre regioni saremmo considerati medio-piccoli. E proviamo a essere capofila e fare sinergia, creando un circuito che possa elevare il territorio, anche attraverso Ca’ Lunae, la nostra struttura dedicata all’enoturismo con ristorante annesso».
Secondo lei è più importante valorizzare il territorio Colli di Luni o l’uva Vermentino?
«Bisogna valorizzare il luogo attraverso l’uva e l’uva attraverso il luogo. Certo, siamo una cosa a parte rispetto ad altre zone vocate per il Vermentino, ma questo successo lo dobbiamo al vitigno e privarci del suo nome – come stanno facendo in altre zone – sarebbe impensabile. Anche perché è il migliore interprete di questo territorio tra mare e montagna, tra Toscana e Liguria, che ha una marea di sfumature al suo interno».
Tra tutti i Vermentino, il Colli di Luni è forse quello stilisticamente più nordico?
«Per certi versi sì: sicuramente questa è zona di mare, non ha un clima montano. Ma le Alpi Apuane sono vicine e le brezze montane discendono sempre a rinfrescare le vigne: è da lì che viene questa eleganza aromatica e l’acidità che alle volte ricorda territori più a nord».
Longevità del Vermentino: si tende a berlo fresco, ma gli assaggi mostrano che evolve in maniera affascinante e inusuale.
«È un vino che non deve essere per forza aspettato: è piacevole fin da subito. Però ha una duplice chiave di lettura: lo bevi giovane e ne apprezzi frutto e acidità. In evoluzione, se le uve e le zone sono giuste, si spoglia della parte più esuberante e sviluppa grande complessità, pur mantenendo sempre la sua connotazione mediterranea che si intreccia con quel tocco idrocarburico che piace agli appassionati».
Però, arrivare a produrne una versione pensata specificamente per invecchiamento non è stato facile.
«Per niente: qui, se vuoi, vendi tutto subito. Quando nel 2008 ho provato per la prima volta a fare un vino in edizione limitata con un affinamento più lungo e rilasciato quasi quattro anni dopo la vendemmia, l’ho chiamato Numero Chiuso perché pensavo che fosse un “one shot”: mio padre riteneva che non avesse senso aspettare così tanto. Poi però si è ricreduto: non me l’ha mai detto direttamente, ma, visti i risultati, mi ha consentito di proseguire!»
A un suo collega che voglia puntare al successo con un vino bianco, cosa consiglierebbe lei, che è un grande bianchista?
«Essere introspettivi, non forzare per cercare di allinearsi con uno stile specifico e non lasciarsi travolgere da sogni o convinzioni discordanti con il luogo in cui si è. E poi un buon mutuo per gli investimenti in vigna e in cantina… E ancora, a prescindere dal tipo di vino, un po’ di meditazione per mantenere sempre la calma! »
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