«Ci sono stati dei momenti, qui, che i fotografi li trovavi aggrappati alle grate, per rubare uno scatto» racconta Lina Paolillo. L’episodio si riferisce a quando Emma Marrone era a cena con il fidanzato, qualche anno fa. Un’altra volta invece, di fotografi neanche l’ombra, c’era però la scorta, quella di Roberto Saviano. Michela Murgia – «che era un’amica, una sorella» – non sopportava l’idea che lui non conoscesse l’Enoteca Ferrara, allora chiese a Lina e Mary se fosse possibile aprire a pranzo, in via eccezionale, solo per loro.
Era il giorno del compleanno di Saviano e Michela voleva condividere la bellezza di quel posto che altrimenti lui non avrebbe potuto vedere. Uno spazio enorme, bellissimo, un saliscendi ricco di storia e di fascino, un ex convento del Quattrocento diventato uno dei primi luoghi del vino a Roma. Amato per questo da tanti appassionati, gente comune e nomi noti che venivano qui, anche se le sorelle Paolillo hanno sempre tenuto un profilo basso, forse proprio per quello.
Attori, politici, premi Nobel: mai una foto insieme, mai una pubblicità, la discrezione è sempre stata la regola; qualcuno usciva dal retro per sfuggire ai curiosi, ma intanto si creavano rapporti veri, intensi, come con Fiorella Mannoia, «con lei stavamo fino a mattina a parlare di politica» o Antonio Albanese che è ormai un amico: gli sketch del sommelier sono nati qui e qui li ha girati, anche grazie alla consulenza di Lina. E poi Roy Paci, De Rossi «che per stare seduto in piazza si è camuffato», Chiara Valerio. «Una volta arriva Barillari dicendo che Verdone lo aspetta al tavolo»; ha diverse macchinette al collo ma un cameriere abbocca e lo lascia entrare; seduti ci sono anche Montezemolo, D’Agostino, Alessia Marcuzzi… un putiferio; è stato un caso isolato, ma era Barillari, The King of Paparazzi.
Sono frammenti di una storia recente che occorre declinare al passato: l’Enoteca Ferrara di piazza Trilussa ha chiuso, anche se il suo spirito è invitto. La spiega così, Lina: «Con 400 metri quadrati, ci bastava dare al turista quello che voleva. Ma quel lavoro lì non è nella nostra natura». A sentirla parlare, ha la sicurezza di chi ha mestiere, la determinazione di chi sa esattamente quale sia il suo posto e la sua storia. Sin da quando – alla fine degli anni ’80 – apre l’Enoteca Ferrara, all’Arco di San Callisto, con la sorella che le suggerisce un corso da sommelier da cui sarebbe nata una passione infinita.
Prima invece c’era solo il desiderio di lasciare l’università e aprire un locale, con il nome di una caffetteria di New York che l’aveva colpita. Il vino diventa presto la sua vita mentre Mary all’inizio trascorre le mattine allo studio di architettura poi scappa in enoteca, un localino di 25 metri quadrati, una ventina di sedute, la cantina che non c’era: «facevo avanti e indietro con casa dei miei».
A metà anni ’90 si spostano a piazza Trilussa, prendono un’osteria storica e, dopo un paio di anni, il locale accanto. La ristrutturazione ovviamente la firma Mary che nel frattempo è entrata definitivamente in cucina; riporta in vita ambienti di incredibile bellezza, mortificati dalle precedenti proprietà: 400 metri quadrati su più livelli – ristorante, enoteca, osteria, vineria, bottega – e una cantina sotto ai piedi che è leggenda. A un certo punto conta 1400 bottiglie «poi ci siamo dette che era davvero troppo. E abbiamo ridotto a settemila».
Un patrimonio le cui radici vanno cercate in quel primo locale mignon e nelle idee, i gusti, le decisioni di Lina. «Anche quando eravamo in 25 mq non ho mai comprato dai grossisti – dice – per avere una cantina profonda come quella in cui credevo io, dovevo comprare dai produttori, e poi affinare». Dice che la chiamavano spazzacantine, perché mentre tutti chiedevano l’ultima annata, arrivava lei e ripuliva il resto comprando le vecchie: «la spremuta d’uva non m’è mai piaciuta» fa convinta. È una cosa su cui ha sempre creduto tantissimo «Non pecco di immodestia se dico che ho insegnato ai nostri clienti a bere maturo». I bianchi al bicchiere sono sempre stati di almeno 3 o 4 anni, per dire, «e continueremo così».
Per raccontare tutto questo, una carta dei vini leggendaria quanto la cantina. Due archivi alti un palmo: uno per i rossi e uno per i bianchi, in cinque copie ognuno. Invece dei nomi ci sono le etichette, una per pagina, che Lina si fa mandare dalle cantine (ne chiede sempre anche qualcuna in più, nel caso qualche cliente la volesse per ricordo). Lei le smonta e rimonta tutti i giorni, «le pagine erano fronte retro, quindi se finiva un vino, dovevo scalare le etichette fino in fondo perché non tolleravo di avere lo spazio bianco». Lo fa per tutte le copie. Un lavorone. E anche ora che hanno portato i vini in un magazzino, ci hanno messo 4 giorni solo per incartare tutto.
Chiudere un locale così bello e ancora attuale dopo quasi 30 anni, è un dolore, ma forse è inevitabile. Della Trastevere di ieri è rimasto poco, soprattutto dopo il Covid, loro ne hanno visto le trasformazioni; oggi è un quartiere sempre più in sofferenza, afflitto da un turismo rapace per cui se non punti ai grandi numeri, in un posto così grande, fatichi; «se avessimo voluto fare quel tipo di lavoro, lo avremmo fatto prima: eravamo nel posto giusto. Non ce ne saremmo andate».
Poi è arrivata l’offerta giusta nel momento giusto, e loro la colgono, consapevoli dei cambiamenti: «Gli alberghi 5 stelle che prima ci consideravano una certezza ci dicono apertamente che preferiscono non mandare a Trastevere i loro ospiti, e anche nostri clienti storici non ci vengono volentieri qui». Ora vogliono riaprire lontano dai posti più turistici e recuperare i clienti romani, con l’energia dei primi giorni. Cercano nelle zone intorno ai grandi poli attrattivi, in aree facilmente raggiungibili. Con loro portano arredi, conoscenza, il nome che non è stato venduto, e quella cantina fantastica.
Portano anche 6 dipendenti storici, con loro anche da 20 anni, che nel prossimo progetto diventeranno partner in affari: un modo per ringraziarli di tanta devozione, ma anche per costruire una continuità con una famiglia acquisita, dato che quella di sangue ha scelto – «con nostra grande soddisfazione» – intraprendere altre strade. Loro invece no, ma vogliono lavorare meno o in un altro modo: «abbiamo una certa età» spiega Lina, ma capisci che non è tutto lì.
È piuttosto la capacità di leggere il presente e i suoi cambiamenti: «non sarà la copia dell’Enoteca Ferrara, anche se non rinneghiamo la nostra natura». Puntano a un posto più piccolo e a una formula più dinamica e moderna, agile e divertente, per gli avventori come per chi ci lavora. Tengono conto delle nuove abitudini di consumo: «Siamo convinte che ormai le persone mangino bene anche a casa, la proposta enogastronomica romana è talmente ampia, di posti tradizionali ce ne sono tantissimi. Vogliano che le persone passino una bella serata divertendosi con il cibo e il vino». I tempi sono cambiati, insomma, anche per quanto riguarda il modo di bere: «si beve meno e in modo diverso: non più una bottiglia ma due bicchieri di vini diversi». Per questo pensano a un posto in cui mettere grandi etichette in mescita, e magari anche un cocktail, purché di qualità.
«Il mondo del vino si sta interrogando: chiunque ho sentito, quest’anno ha chiuso con il vino in casa. Prima c’era mamma America che risolveva le cose, ma adesso non è così. Gli stessi produttori si sono messi a fare dealcolato, e poi c’è il ritorno dei cocktail come non si vedeva dagli anni ’70. Noi pure ne avevamo in Enoteca ma la cantina soffriva». Senza contare, aggiunge, il cambiamento nel turismo.
«Lo straniero che beveva una buona bottiglia, quello del Nord Europa, del Canada, è scomparso. Il turismo buono è sparito dall’anno scorso, magari ci sarà un buon 2026, ma intanto bisogna chiedersi cosa sta succedendo al turismo romano. Quello di fascia molto alta rimane nel giro degli hotel di lusso, quello medio alto non si vede». Per questo guarda ai romani, con un format più semplice e leggero, anche con una cucina, «perché se pure dobbiamo fare un mini supplì, vogliamo che sia cucinato», ma con un’idea di snella. Pensa a un posto così: «Adesso dobbiamo solo farlo». Sperano di essere in pista per la primavera prossima. Noi con loro.
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