Come chiameremo i pantaloni “a zampa di elefante“? E le “gambe” del tavolino? O un tessuto “a spina di pesce”? Chissà se i conservatori al Parlamento Europeo decideranno di vietare l’uso estensivo di parole entrate nel lessico quotidiano per difendere i cacciatori di elefanti o i pescatori o i tagliatori di legname? Insomma, che senso ha vietare l’uso della parola “burger” per indicare una polpetta vegetale? Sì, perché la nuova richiesta di norma europea detta legge sul piano linguistico mettendo al bando il “meat sounding” per prodotti tradizionalmente a base animale che oggi vedono varianti plant based.
Ma come la mettiamo con l’uso della parola polpetta? Che tradotta sarebbe un burger? La polpetta di melanzane, di antica tradizione, come si chiamerà? Perché, alla fine, non si capisce se vietato sia il “concetto” o lo specifico “lemma”. Non solo: tutta questa battaglia dei conservatori (sostenuta nel voto anche da una parte dei socialisti a Bruxelles) punta a contrastare l’utilizzo di termini tradizionali per vendere novel food (divieto che divide anche il mondo delle industrie del food). E specifica: per carne si intende un prodotto derivato da animali”. Quindi, si salvano i burger di pesce. Ma come la mettiamo con i burger (alias polpette) di carne coltivata? Che in sostanza viene comunque da cellule animali.
Un’immagine tratta dal film Pulp Fiction
L’ideologia applicata alla vita è sempre “reazionaria“, perché punta a cristallizzare il passato mentre la peculiarità dell’essere umano è l’immaginazione che prelude al “progresso“. Al di fuori da ogni giudizio sui due corni (reazione e progresso), rimane difficile pensare al linguaggio deciso per legge: è portatore sempre di censure e in genere funziona non in sintonia con la normale e fisiologica evoluzione del linguaggio stesso. Ma torniamo alle polpette: in origine erano “hamburger“, ovvero palle – più o meno schiacciate – di carne tritata che dalla Germania gli emigranti in America portarono come cibo della loro terra. Erano hamburger, ma anche polpette di altre zone della Germania, non solo di Amburgo. Fino a che bastò il termine “burger” per indicare quel tipo di preparazione.
«Si tratta di una bistecca di carne tritata. Burger, da quanto ne so é sono una abbreviazione del nome originale, senza altre accezioni – spiega Luca Cesari – Ora hamburger viene esteso a tutto ciò che ha quella forma, proprio come è stato fatto per il latte di mandorle che ha alcune proprietà comuni con il latte, anche se nessuno ha mai trovato le mammelle delle mandorle». Ma se la precedente ondata di revisione linguistica europea ha salvato dal bando il latte di mandorla e quello di cocco, perché ormai diventati ingredienti tradizionali, è stato vietato invece l’accostamente tra latte e soia o avena, anch’esso da anni e anni diventato di uso comune (sia lessicale che alimentare).
Polpette di bollito romane
In Italia salutano con grande entusiasmo questo revisionismo lessicale alcune organizzazioni agricole, Coldiretti in primis, ed esponenti di area governativa. Anche se non si capisce a che titolo e perché! Si urla contro le “multinazionali del novel food” che danneggerebbero gli agricoltori. Ma perché, le multinazionali della carne o del latte vaccino non vessano gli agricoltori che quella carne e quel latte producono? Non solo: l’hamburger di ceci o di fave con cosa è fatto, se non con prodotti agricoli? Non solo: chi mette sugli scaffali prodotti “veg” punta a venderli proprio perché non di carne.
E chiamarli burger non punta a confonderli con quelli di carne, ma semplicemente a far capire alle persone di cosa si tratta! Quindi? Il punto non è tanto il “meat sounding“, quanto il senso comune. Chi compra un burger di ceci, non lo compra perché sembra carne: anzi, lo acquista proprio perché non è di carne. Cosa c’entra il “meat sounding”? I legislatori di Bruxelles dicono che così si fa chiarezza, ma in realtà si genera solo confusione.
Infine, parliamo di tradizione. Quante volte studiosi, scienziati, cuochi o macellai hanno detto che tradizione non vuol dire museo? E che solo cambiandole e tradendole, si riuscirà a traghettare le tradizioni nel futuro. Se le abitudini dei nostri nonni vengono avvolte in mantelli color porpora e agghindate cin stemmi e gagliardetti, celebrate con cerimonie polverose e stantie, riusciremo solo a renderle molto poco appetibili per le nuove generazioni, specialmente in un’epoca in cui i cambiamenti sono sempre più veloci e in cui una “generazione” non misura più 30, ma appena 10 se non 5 anni. In fondo, cosa sono i mondeghili?
Lo chiediamo all’Intelligenza Artificiale di Google, la quintessenza del senso comune: “I mondeghili sono polpette tipiche milanesi, preparate con carne (spesso avanzi di bolliti) tritata, mortadella, pane raffermo bagnato nel latte, formaggio, uova e spezie, che vengono poi impanate e fritte nel burro. Il nome “mondeghili” deriva dalla parola spagnola “albondiga”, che a sua volta ha origine araba (“al-bunduq”), e le polpette sono un esempio di piatto “antispreco” della cucina popolare milanese”. E i felafel? Chiediamo sempre a Google: “I falafel sono polpette di legumi (principalmente ceci, ma anche fave o fagioli) speziate, tipiche della cucina mediorientale, che vengono fritte o cotte al forno”. Dunque, sempre di polpette parliamo.
Ed è un “plus” poter parlare di questi cibi tradizionali usando anche termini attuali, come burger. E poi, tornando alle norme di Bruxelles: come chiamiamo le polpette o i burger di carne (o di pesce) coltivata? E perché se l’hamburger era una bistecca di manzo tritata, possiamo chiamare burger anche quelli di pollo? O di struzzo? Insomma, lasciamo allo storico della gastronomia il compito di una riflessione finale: «Se è legittimo legiferare su questi aspetti, dobbiamo però riflettere sul fatto che le parole che usiamo ricalcano strutture di pensiero utilizzate per comprendere il mondo che ci circonda – dice Luca Cesari – Ormai la guerra sulle parole è diventata il vero terreno di scontro e costringerà a evoluzioni perifrastiche sulle confezioni, oppure all’invenzione di neologismi, prossime occupazioni per schiere di pubblicitari (o poeti) chiamati a inventare nomi per ciò che mangiamo, ma non sappiamo ancora come chiamare».
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