Benservito

"Antipasti misti per tutti?", anche no. Breve elogio del libero arbitrio a tavola

Tra bruschette contese e carciofi in custodia collettiva, la dittatura del “mettiamo tutto al centro” continua a imperversare. E chi si oppone è un eretico del gusto.

  • 11 Ottobre, 2025

C’è una burocrazia del piacere, una gentile forma di conformismo che da decenni si infiltra tra tovaglioli e sorrisi: quella del “mettiamo tutto al centro”. Già ai tempi del liceo, durante le lunghe ed estenuanti cene di classe, tra brufoli, calzini spaiati e forfora, c’era sempre qualcuno che proponeva di prendere un po’ di tutto per tutti. E io, seduta in fondo, nella solitudine di chi pensa al contrario, guardavo i piatti come si guarda una spartizione ereditaria: bruschette contese, frittatine dimezzate, un carciofo in custodia collettiva. Una lezione precoce di comunismo gastronomico, che da allora non ho più dimenticato. E rifiutato.

La tavola può essere teatro di gusti e capricci, ma con i gruppi di amici spesso diventa un’assemblea di condominio culinario. Tutti partecipano, nessuno decide. Tutti assaggiano, nessuno sceglie. Il momento preciso in cui qualcuno pronuncia la frase fatale – «Facciamo un po’ di tutto da dividere?», «Mettiamo un po’ gli antipasti in mezzo?» – è quello in cui la libertà individuale evapora come un vino cattivo lasciato aperto. L’amico col vocione più alto si fa avanti, apre il petto come un cantante lirico e decanta per tutti l’ordine tirannico. Succede spesso, succede ovunque, e chi la pensa diversamente diventa un nemico da affrontare e da abbattere. 

Non si tratta di egoismo, ma di stile. La convivialità nasce nel momento in cui si riconosce la sacralità del proprio piatto: il diritto di affondare la forchetta senza chiedere permesso, di godere di un boccone integro, non negoziato, non spartito in nome della socialità obbligatoria. Mangiare insieme non è mischiare tutto: è rispettare la solitudine scelta dell’altro. Ovvero: se qualcuno non è d’accordo, finitevela di imporre la condivisione a tavola. Non è un obbligo, anzi.

Ricordo un pranzo romano, di quelli con tovaglie fresche di bucato e amici entusiasti. «Condividiamo tutto!» dissero, e già immaginavo la diaspora della mia caponata in otto direzioni. Tornai a casa sazia di confusione, ma affamata di chiarezza. C’è qualcosa di profondamente romantico nel desiderio di un piatto solo per sé: è il piccolo lusso dell’individualismo gastronomico, la versione commestibile del pensiero libero.

Il piatto condiviso è l’emblema del nostro tempo, gentile, collettivo, un po’ ansioso di piacere a tutti. Ma ogni tanto, vale la pena opporre un gesto d’indipendenza: ordinare da soli, decidere per sé, scegliere con grazia ma senza contrattazione. Il libero arbitrio, a tavola come nella vita, è un atto estetico prima ancora che etico. E se proprio bisogna mettere qualcosa al centro, che sia il rispetto per la scelta altrui, non la burrata condivisa. Il piacere, come la libertà, è un affare intimo. Si coltiva meglio da soli, ma si racconta benissimo in compagnia.

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