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Addio a Sirio Maccioni, il mito di un ristoratore italiano a New York

Scompare a 88 anni appena compiuti, nella sua Montecatini, il ristoratore italiano capace di incantare il jet set di New York. Dal 1974 alla guida di Le Cirque, mitico ristorante inaugurato al Mayfari Hotel e più volte ripensato in nuovi spazi della città.

  • 20 Aprile, 2020

Da Montecatini alla conquista d’America

Sirio Maccioni ci ha lasciato: il mito del ristoratore americano di origini italiane che ce l’ha fatta ad avere successo, ha chiuso il suo percorso terreno, che era partito da Montecatini, e lì è terminato. Con lui scompare un mondo fantastico, che ha popolato molto dell’immaginario collettivo in quanto a parole come jet set, glamour e savoir faire.  La storia degli uomini di successo di quegli anni sembra incredibile a osservarla oggi: partiti da una gavetta assolutamente ordinaria per arrivare a un successo planetario. Per lui, classe 1932, studente della scuola alberghiera “Martini” di Montecatini Terme, si prospettava una strada già tracciata, fatta di stagioni al mare e magari, al massimo della sua aspettativa, un posto al rinomato “Grand Hotel La Pace” della città termale. Invece Sirio scelse di partire dalla madrepatria, si rifugiò all’estero, scelse le stagioni nei ristoranti francesi e infine il grande salto a New York, la Grande Mela, il luogo immaginato nei sogni di bambino e poi diventato una solida realtà. Sirio Maccioni aveva il fisico e il modo di comportarsi da attore hollywoodiano. Sarà per questo che i suoi locali erano frequentati da tanti personaggi famosi, appartenenti al mondo dello spettacolo, della politica o dell’economia. La sua fama inizia quando diventa maitre del Colony Hotel di New York, meno di trent’anni e un fascino che incanta i commensali: peccato non sappia ancora l’inglese in maniera perfetta, ma sarà un problema che non lo frenerà mai, anzi, conservare quell’accento italiano sarà la sua “signature” nei colloqui con i clienti.

foto in bianco e nero di Sirio Maccioni al banco del bar

1974. Apre Le Cirque a New York

La svolta arriva nel 1974, con l’apertura de Le Cirque a New York, nel Mayfair Hotel. Una scelta davvero controcorrente per un italiano emigrato, una cucina che parlava francese come stile, specialità e modi di cucinare, ma dove compaiono ingredienti italiani altrimenti non reperibili in altri ristoranti italiani d’America. Famosa la volta in cui per far conoscere il Lardo di Colonnata iniziò a servirlo raccontando che in Italia esiste una particolare varietà di storioni. Solo quando era certo che il prodotto risultasse gradito, raccontava la storia di un prodotto fantastico. E se resta famoso per la sua fantastica crème brûlée, vuol dire che Sirio è stato capace di far completamente dimenticare lo stereotipo dell’italiano che campa all’estero grazie all’idea di pizza e spaghetti.

Sirio Maccioni con grembiule e magnum di vino

Il cliente al centro

La grandezza di Maccioni è stata quella di interpretare il gusto delle persone e il segno dei tempi, avere un rapporto conflittuale con gli chef (sotto la sua egida crebbe a New York, dal 1986 al 1992, la fama di Daniel Boulud, executive a Le Cirque, prima di aprire il suo Daniel), che riteneva perfetti se riuscivano a soddisfare i bisogni della clientela. “La smettano questi cuochi di mettere puntini, righine e ammennicoli vari nei piatti e riscoprano la semplicità. Il gusto di fare bene una ricetta“. Insieme ai tre figli  – Mauro, Mario e Marco – e a sua moglie ha costituito un vero e proprio clan, inteso in senso positivo, unito nel lavoro e nella vita, riuscendo a creare un piccolo network di locali tra Stati Uniti, India e Repubblica Domenicana, che portano appunto il nome di Le Cirque, un ristorante che ha rappresentato  veramente un esempio di come si possa credere in un progetto e replicarlo, malgrado i fallimenti che ci sono stati, ma che non ne hanno inficiato assolutamente  la credibilità. Ora il suo operare verrà portato avanti dai figli, per non disperdere un brand che ha fatto la storia recente della gastronomia americana.

 

a cura di Leonardo Romanelli

 

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