"A Milano i grandi gruppi aprono locali tutti uguali. Gli affitti? Fuori di testa". Intervista allo chef Marco Ambrosino

18 Mag 2024, 11:22 | a cura di
Il cuoco di Sustànza a Napoli ci parla del suo nuovo progetto, del Mediterraneo che non è solo un film di Salvatores, e della città dove ha lavorato per anni al ristorante 28 Posti

Se c’è uno chef in Italia che fa cucina politica, questo qualcuno è Marco Ambrosino, chef di Sustà nza a Napoli nell’inconsueto contesto di Galleria Principe di Napoli, rimasta chiusa per decenni e ridotta a ricovero per senzatetto e oggi riaperta come cantiere di imprenditoria sociale. Qui al primo piano di quello che è stato dapprima un café chantant e poi la tesoreria del Banco di Napoli – al piano terra c’è il bar Scottojonno, a cui Sustànza è collegato – Ambrosino porta avanti la sua idea di cucina legata a quella che lui definisce la “creolità mediterranea”.

Ambrosino, che cosa vuol dire creolità mediterranea?

Io faccio sempre questo esempio: se si scrive su Google Mediterraneo esce la foto di Diego Abatantuono nel film di Salvatores e dopo una fotografia col pomodoro, il basilico, la mozzarella. Che va anche bene, ma se si pensa al pomodoro come prodotto che arriva da lontano a far parte di questo micro-macrosistema peculiare. Ma noi tendiamo per brevità ad accorciare le cose. Io non penso che per forza tutto debba sempre essere complesso, ma nemmeno il contrario.

C’è bisogno di un nuovo racconto del Mediterraneo?

Penso che mai come in questo periodo storico serva raccontare una forma del Mediterraneo che va riscritta con dei termini veri. Io penso che il racconto della cucina di questi anni abbia subito molto questa potatura orizzontale.

In che senso?

Le cose vengono raccontate in un modo che non corrisponde proprio alla realtà, ma il problema è che però restano scritte. Piace la favola della nonna che cucinava. E tra cento anni avremo un racconto di qualcosa che non è stato proprio così. Così fa notizia Alberto Grandi che ci dice che certe cose ce le siamo inventate l’altro ieri. Io cerco di raccontare il legame che c’è tra i popoli, questo grande momento di passaggio, senza necessariamente attingere a un linguaggio gastronomico.

Come si può fare?

Il mio metodo di lavoro è prendere spunto da cose che con la cucina non c’entrano nulla. Per esempio io sono un grande appassionato di antropologia, mi piace capire come funzionano le cose e anni fa facemmo un menu tutto a base di tabacco dopo che lessi della rivolta delle tabacchine di Tricase, la prima fabbrica di tabacco in Puglia a conduzione totalmente femminile, fu la prima vera rivolta delle lavoratrici nella storia, fu drammatica, ne morirono molte.

Difficile fare una narrazione simile in questo mondo che va verso la semplificazione di tutto…

Ma quello che racconto qui non ha necessariamente a che fare con un momento di piacere. Io metto sui social dei disegni che faccio io, una mia forma di psicoterapia, spesso per veicolare sentimenti negativi. Ma per me la grande differenza tra la cucina e l’arte è che in quest’ultima i sentimenti negativi, la rabbia, la malinconia, la tristezza, hanno dato vita ai più grandi capolavori. L’arte è spesso disturbante, nasce da un’urgenza, mentre la cucina nasce da una necessità, è un lavoro.

E quindi la cucina deve provocare un pensiero?

Tutte queste cose non devono necessariamente tenersi assieme, ma è il mio modo per riuscire a essere anche me oltre che me nel piatto. Oltretutto mettere qualcosa di diverso nel fine dining vuol dire riempire giornate che altrimenti, anche nel più bel ristorante del mondo, sono fatte di gesti meccanici volti al piatto da portare a tavola. Io coi miei ragazzi faccio sempre una chiacchiera in più su una cosa che non sia un soffritto. Poi certo, quel soffritto lo dobbiamo saper fare. Cucinare bene è il minimo sindacale.

Dal punto di vista del suo percorso, che cosa le ha dato il ritorno a Napoli dopo dieci anni di Milano?

Intanto io non sono tornato a Napoli perché non ci ho mai lavorato, ci ho fatto l’università. Io sono di Procida, ho lavorato in Campania ma non a Napoli. Io e mia moglie, che è architetto ed è di Ischia, volevamo riavvicinarci a casa, poi nostro figlio doveva iniziare la scuola elementare. Mi sono imbattuto in questo progetto, ho visto questo posto che era un cantiere ma era già questa cosa qui e ho già deciso dal primo momento. Poi sono seguiti mesi di dubbi. E le persone che mi dicevano, ma che vai a fare a Napoli. Ma in questo posto c’è tanta voglia di fare, di creare legami, di inventare luoghi e non zone da attraversare. Napoli ha un livello di autenticità più alta, almeno in questa zona, qui c’è questa voglia di mettersi assieme, di fare cose belle che a Milano non c’è.

Ecco, Milano. Come ci era finito?

Venivo da un breve stage al Noma e pensavo che Milano fosse la cosa più simile a Copenaghen. Ho lavorato dapprima per un pastificio in zona Sant’Ambrogio che faceva anche ristorazione, poi sono finito al 28 Posti, a cui devo tantissimo. Sono stati anni molto importanti.

Però l’impressione è che a Milano questo suo discorso sociale e antropologico non passasse molto, si parlava di lei come il giovane e bravo chef campano…

Quando le cose si fanno a Milano hanno sempre un richiamo nazionale e qualsiasi cosa si auto-vanifica in un discorso corrente, si perde l’autenticità. Poi Milano ha questa cosa dei quartieri...

Ovvero?

ìMilano fa tutto in un quartiere, la cosa dura cinque anni, poi si sposta altrove. Io l’ho notato anche un po’ sulla mia pelle. La zona dei Navigli e della Darsena quando abbiamo aperto 28 posti era il centro gastronomico, poi finisce quella cosa lì e ora in via Vigevano nei locali con le canne fumarie ci aprono in negozi di scarpeì.

Un piatto di chef Ambrosino

Secondo lei perché accade questo?

A Milano si sta imponendo il modello per cui i grandi gruppi hanno una potenza di fuoco e aprono locali in serie a Brera che corrispondono a dei format, tutti uguali. Sei o sette anni fa andava il piccolo bistrot con i vini naturali, oggi è tutto una finta trattoria milanese. Gli altri, i piccoli, funzionano solo se sono molto bravi, reggi se sei Gianluca Ladu di Vinoir, se sei Enricomaria Porta della Concorrenza, se sei Vladimiro Poma di Silvano, osti che sono sempre là, che sono il motivo per cui uno va da loro, sicuro che anche se è da solo trova modo di parlare con qualcuno. Ma questi posti sono difficilissimi da aprire, chi può permettersi gli affitti fuori di testa di Milano?.

E allora?

E allora restano questi locali aperti dai Ferragamo, dai Delvecchio, da Big Mamma. Io non criminalizzo la ricchezza, ma se va avanti così la ristorazione a Milano diventa comprare una scatola di lusso e metterci qualcosa dentro.

Però tu rispondono che sono sempre pieni.

Certo, funzionano. Ma il fatto che siano sempre pieni non ha nulla a che vedere con quello che si fa lì dentro, che non necessariamente ti dà qualcosa. Loro funzioneranno sempre, a noi resterà la libertà di dire la verità.

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