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La ricerca

Funghi, miceli, lasagne e pomodori: ecco come evolve il cibo nello spazio

Da tubetti di carne a lasagne all'umami: il cibo spaziale è passato da sopravvivenza a comfort. Tra miceli commestibili, serre verticali e fermentazioni in orbita, nutrire gli astronauti è oggi anche una questione culturale. E la Biennale di Venezia lancia il suo Padiglione Universo

  • 10 Giugno, 2025

Nel 1961 Jurij Gagarin per la sua missione nello spazio aveva in dotazione tubetti di carne e di cioccolato, non molto invitanti. Erano i tempi della grande corsa allo spazio, prima che Neil Armstrong facesse la sua passeggiata lunare: «un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità» pare abbia detto. Una rivoluzione che ha aperto nuovi orizzonti e nuovi problemi da risolvere in vista dell’esplorazione delle oscurità spaziali. Il cibo è uno di questi. Tanto che il racconto del primo panino portato di nascosto in orbita fa ancora sorridere…
Il cibo nello spazio è fondamentale, a partire dalle esigenze nutrizionali di persone soggette a un grande stress muscolare e osseo, passando per l’assenza di gravità che riduce la funzionalità di gusto e olfatto e cambia il modo in cui si mastica e deglutisce, senza sottovalutare la necessità di evitare di infiammazioni o intossicazioni, per finire con problemi pratici: niente frigoriferi, almeno nelle prime missioni, niente fuochi per cucinare, niente gravità dunque cibi che possono “galleggiare” nelle navicelle. Mentre qualcuno fantasticava su pietanze in pillole, ben presto ci si è resi conto del ruolo che aveva il cibo, non solo come nutrimento, ma anche come fondamentale ristoro emotivo per chi, lontano dalla Terra, era bisognoso di rimanere connesso a quel complesso culturale, sociale, emotivo che ne definiva l’identità. Magari… coltivando pomodori.

Esplorazione e alimentazione

Così mentre la ricerca spaziale portava l’uomo sulla Luna e oltre, si premurava anche di assicurare i migliori pasti possibili. Che non significa per forza buoni: l’astronauta Don Thomas diceva che nessuno va nello spazio per il cibo, però la vista è stupenda. Ora che quella vista è alla portata di chiunque, purché dotato di un potere d’acquisto stellare, si cerca ancora di migliorare l’alimentazione degli esploratori del cosmo o i turisti dello spazio. Per i viaggi privati è ancora presto per imbandire la tavola, ma ci siamo quasi: 11 i minuti trascorsi da Katy Perry oltre la linea di Kármán (100 km), convenzionalmente dove inizia lo Spazio, mentre l’avventura gastronomica firmata da Rasmus Munk (The Alchemist, Copenaghen) prevista per il 2026 si fermerà a “soli” 100.000 piedi di altezza (circa 30 km), a bordo dell’astronave Spaceship Neptune di Space Perspective. Un’esperienza di sei ore, di cui quattro di viaggio, per 6 avventurosi commensali che mangeranno osservando la curvatura della Terra. Prezzo da definire, si parlava di circa 500.000 dollari, viaggio incluso. E a conferma di come lo Spazio sia ormai parte del nostro presente, la Biennale di Architettura di Venezia quest’anno ospita un inedito Padiglione Universo.

 

Miceli, arte e nutrizione

«L’Universe Pavilion – dicono – è concepito come un evento annuale, volto a creare una piattaforma che favorisca un dialogo continuo tra culture e discipline», in cui stimolare una riflessione su come il pensiero artistico e filosofico possano intersecare la ricerca spaziale, in una prospettiva di grandi implicazioni etiche. La scienza si concentra su come sostenere la vita fuori dalla Terra e su come costruire comunità sostenibili anche in condizioni estreme, ma senza trascurare aspetti culturali, sociali e psicologici, come evidenziato dalla mostra Sheltering in Space – A Guide, curata da Claudia Schnugg. Una delle opere, Nuovo Abitare di jt-r x Ultravioletto, ricrea in modo virtuale strutture di micelio (l’apparato vegetativo dei funghi formato da un intreccio di filamenti), siglando la convergenza di riflessione artistica e ricerca scientifica.

I laboratori studiano i funghi come base per nuovi piatti

I miceli sono infatti oggetto della ricerca di Alessandra Massa, dottoranda al Basque Culinary Center, in collaborazione con il fisico Eneko Axpe. Studia come microrganismi estremofili, capaci cioè di sopravvivere in condizioni estreme, possano ampliare la biodiversità alimentare in habitat complessi. «In microgravità i funghi crescono molto bene» spiega. La sfida del futuro, infatti, non si gioca solo sul piano della ricettazione o della conservazione, quanto su quello dell’autoproduzione, anche in vista di missioni sempre più lunghe, come quella verso Marte: 6-8 mesi per andare, altrettanti per tornare. Stoccare tutte le derrate è complicato, da lì l’esigenza di produrre il cibo in loco. Per le stesse condizioni logistiche, si cercano alternative al trasporto delle strutture da usare nelle missioni. Due problemi diversi che trovano nei miceli la soluzione. Il progetto Mycotecture off Planet della Nasa studia come impiegare i miceli per costruire (meglio sarebbe dire far crescere) delle architetture viventi flessibili, in modo rapido e a basso costo. I miceli adatti agli usi ingegneristici non sono diversi da quelli usati per il tempeh o la salsa di soia. E allora perché non sfruttarne anche il potenziale gastronomico? «In genere sono elementi secondari, che si fanno crescere su qualcosa per cambiarne il sapore.

Ora vogliamo dare valore al micelio stesso: in una settimana si può avere una materia prima ricca di proteine, tra il 30 e l’80%» dice. «A livello creativo è un nuovo ingrediente», già impiegato nei ristoranti più visionari. Al momento lavorano su 5 diversi funghi. Non solo: gli scarti – che nello Spazio costituiscono un problema – possono essere impiegati come substrato, «così una cosa senza sapore e nutrienti può diventare saporita, ricca di proteine e amminoacidi». Eneko Exta, del ristorante Azurmedi, aveva sperimentato con scarti del caffè per creare dei piccoli oggetti.

 

Autoproduzione

A 400 chilometri sopra la superficie terrestre si può anche fermentare, come ha dimostrato un lavoro del Massachusetts Institute of Technology con Technical University of Denmark che hanno spedito per 30 giorni un impasto di soia e koji, ingredienti del miso, nella Stazione Spaziale Internazionale. L’esperimento è andato bene: accertata la sicurezza alimentare, si sono evidenziati sentori più tostati e nocciolati rispetto allo stesso miso prodotto sulla terra. Aprendo così ulteriori opportunità di conservazione e gastronomiche: «la fermentazione sviluppa sapori forti con poche materie prime: sono gli stessi microorganismi che, con la loro capacità enzimatica, creano aromi molto caratteristici» spiega Alessandra Massa. «Inoltre gli alimenti fermentati aiutano il microbiota». La strada della coltivazione fa invece un passo avanti grazie alla start up Space V (tra i fondatori anche Franco Malerba, primo astronauta italiano andato nello spazio, nel 1992) che ha progettato serre dinamiche multipiano che permetteranno agli astronauti di produrre vegetali freschi grazie alla tecnologia Adaptive Vertical Farm (AVF) ad altissima resa (fino al 135% in più) e basso consumo energetico (oltre il 40% in meno). Il trend sono i micro ortaggi, particolarmente ricchi di antiossidanti. La serra migliorerebbe l’alimentazione degli astronauti, con l’introduzione di cibi freschi, e il loro benessere psicologico, grazie al contatto con la natura e all’interazione con il cibo, che nello Spazio si perde quasi del tutto. La facilità di consumo è ancora un fattore primario: tagliare, versare, emulsionare sono attività complicate in assenza di gravità. Oggi l’alimentazione degli astronauti ha un programma in cicli di pochi giorni con due opzioni, una prodotta in Russia e una negli Usa, e dei bonus food che rispondono ai gusti e le preferenze degli astronauti, per contribuire al loro morale.

Il bonus food all’italiana

Lo racconta Stefano Polato che ha seguito gli italiani in 5 missioni nello spazio da quando, nel 2012, lo ha chiamato Samantha Cristoforetti, che preparava la sua prima missione sulla Stazione Spaziale Internazionale. Chiedeva più verdure, proteine vegetali, pesce. Polato ha lavorato con l’agenzia aereospaziale Argotec di Torino, in squadra con tecnologi alimentari, nutrizionisti, fisici e chimici, per rispettare i requisisti imposti dalla Nasa. I piatti vengono liofilizzati o termostabilizzati a oltre 100 gradi per assicurare una lunga conservazione e prevenire contaminazioni batteriche. I cibi liofilizzati interi sono inseriti in sacchetti con una valvolina per aggiungere l’acqua per reidratarli all’uso. All’inizio, con la coda di rospo e i broccoli il risultato non è stato granché: gommosa la prima, mollicci i secondi. Poi le cose sono migliorate, tra i suoi piatti zuppa di legumi, insalata di quinoa con sgombro e verdure. «Meglio cotture dolci e veloci, per conservare i valori nutrizionali, e niente che possa creare infiammazioni». I piatti migliori? «Quelli dalla consistenza cremosa, tipo un risotto non troppo all’onda o una lasagna che si può raccogliere con una posata senza che si disperda». Bisogna poi aggirare i problemi di gusto della microgravità: frutta secca e semi oleosi migliorano la texture, le spezie rendono i piatti più appetitosi mentre il sale crea problemi di ritenzione idrica. Davide Scabin – coinvolto nel 2011 proprio da Argotec – puntava tutto sull’umami per piatti super confort: lasagna (nota come Combal Space Lasagna), parmigiana di melanzane, risotto al pesto, caponata, tiramisù. L’inglese Timoty Peake scelse invece Heston Blumenthal che dopo infiniti tentativi trovò la ricetta adatta, così inviò i suoi piatti in una navicella, che però esplose poco dopo il lancio.

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