Più di 500 grammi di cibo. È quanto in media ha buttato nell’immondizia una famiglia italiana negli ultimi sette giorni. Un panino, qualche fetta di salame, uno yogurt scaduto, un po’ di verdura appassita. Gesti quotidiani, apparentemente insignificanti, che se sommati diventano un fenomeno devastante. Lo ha spiegato bene in un’intervista al Corriere della Sera Andrea Segrè, agronomo, economista, fondatore di Last Minute Market e alla guida dell’Osservatorio Waste Watcher: «In Italia stiamo migliorando, ma non abbastanza. Parliamo di 28,9 chili di cibo sprecato a testa all’anno, 1,7 milioni di tonnellate che finiscono nella spazzatura invece che nei nostri piatti pari a 7,46 miliardi di euro». Eppure, mai come oggi, abbiamo strumenti sofisticati per conservare gli alimenti. Frigoriferi intelligenti, congelatori capienti, packaging all’avanguardia che promettono freschezza duratura. Allora perché continuiamo a sprecare?
Le ragioni sono più complesse e radicate di quanto possa sembrare. Acquisti mal pianificati, frutta e verdura esteticamente imperfette che finiscono nel carrello per poi essere scartate a casa. Ma ci sono anche le spese compulsive innescate da promozioni apparentemente irresistibili e confezioni troppo grandi per nuclei familiari sempre più piccoli. Sono questi i veri colpevoli dello spreco domestico, che da solo rappresenta la fetta più consistente dell’intero fenomeno del food waste.
La facilità di acquisto, tra congelatori sempre più grandi e supermercati aperti 24 ore su 24, si è trasformata in una trappola comportamentale. Compriamo tre confezioni perché c’è l’offerta, riempiamo il frigorifero con le migliori intenzioni, accumuliamo scorte per sicurezza. Ma poi lavoriamo fino a tardi, usciamo a cena, partiamo per il weekend. E il cibo – su tutti frutta fresca, insalate, patate, pane e verdure, proprio quelli che un tempo si compravano giorno per giorno – aspetta pazientemente fino a quando non diventa inevitabilmente spazzatura.
Ma c’è un elemento ancora più insidioso: l’etichettatura. Una delle cause di spreco è proprio la scarsa comprensione di scadenza e termine minimo di conservazione. Il sistema delle date ha infatti creato una falsa certezza. Pensiamo che il giorno dopo la scadenza il cibo diventi automaticamente pericoloso, ma non è così. La Commissione europea ha scoperto che la confusione tra “da consumarsi entro” e “da consumarsi preferibilmente entro“ alimenta il 10% di sprechi evitabili.
La trappola della scadenza con cui spesso gettiamo via prodotti perfettamente commestibili per paura di etichette mal interpretate si innesta perfettamente, inoltre, nella logica commerciale. Le aziende hanno tutto l’interesse a far ruotare velocemente i prodotti, e le date di scadenza diventano uno strumento di marketing mascherato da sicurezza alimentare. Il risultato è che buttiamo via tonnellate di cibo perfettamente commestibile.
E se fosse la conservazione moderna ad aver contribuito a creare questo sistema di spreco? Quello che doveva essere uno strumento di liberazione – la possibilità di conservare il cibo più a lungo in frigo o la facoltà di acquistare prodotti confezionati senza la pressione del consumo immediato – si è trasformato in un alibi per l’accumulo irresponsabile. “Tanto c’è il frigo” diventa la giustificazione per comprare in eccesso durante le promozioni, ma spesso diventa solo un cimitero di buone intenzioni. Non è un caso che, secondo gli ultimi dati raccolti Confcommercio, la cattiva conservazione in frigorifero sia responsabile del 48% degli sprechi di frutta e verdura.
Il packaging industriale ha completato questo circolo vizioso, lavorando in sinergia con le date di scadenza per creare una distanza emotiva con il cibo che le generazioni precedenti non conoscevano. Le confezioni standardizzate ci hanno allontanato dalla capacità di valutare autonomamente la qualità del cibo. Non annusiamo più, non assaggiamo, non osserviamo. Come ricordato dall’agroeconomista Segrè «il principio resta che guardi lo yogurt, lo annusi, assaggi, senti se è acido». Invece, ci affidiamo ciecamente alle date stampate sulla confezione, senza considerare che sul secco, la scritta “da consumarsi preferibilmente entro” serve spesso solo a far ruotare la merce sugli scaffali. Così la tecnologia che doveva salvarci dallo spreco rischia di alimentarlo se non accompagnata da una nuova consapevolezza e da abitudini più sostenibili.
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