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Falsi miti

I grandi chef bacchettano le nonne: errori, dadi e sovracotture

Un ragù che “pippia” ed è subito sensazione di casa. Casa dolce casa, quella della nonna. La sua cucina è avvolta in un velo di romanticismo degno di una cena a lume di candela. Per noi italiani è così: i piatti che ci preparava la nonna ci sembrano tutti speciali, un modo per dimostrare il […]

  • 14 Giugno, 2025

Un ragù che “pippia” ed è subito sensazione di casa. Casa dolce casa, quella della nonna. La sua cucina è avvolta in un velo di romanticismo degno di una cena a lume di candela. Per noi italiani è così: i piatti che ci preparava la nonna ci sembrano tutti speciali, un modo per dimostrare il proprio amore. Manicaretti che riescono a fare breccia, con generazioni di nipoti pronti a esclamare “la cucina di nonna non si batte”. Ma diciamoci la verità, non è sempre impeccabile. Ne abbiamo parlato con tre cuochi di alto livello, cercando di annotare ed evidenziare la lunga lista degli errori di cui quegli antichi ricettari di famiglia tramandati di mamma in figlia sono infarciti. 

Gli errori madornali delle nonne

Appartengono al repertorio le sovracotture (pasta scotta, verdure stufate fino all’esaurimento e fettine di carne ridotte a suole di scarpe), gli eccessi gratuiti giustificati bonariamente a suon di «mangia, che devi crescere» (ossia porzioni strabordanti e condimenti a dir poco opulenti), l’uso dello zucchero per “correggere” l’acidità naturale del pomodoro, l’impiego ausiliare di prodotti industriali quanto meno opinabili (dado, insaporitori, ecc.), e quello indiscriminato del congelatore, a discapito della freschezza e delle proprietà organolettiche degli alimenti.

Da sinistra: Alberto Gipponi, Antonia Klugmann e Davide Guidara

Tre chef analizzano la cucina della nonna

In questo lavoro di decostruzione dell’ideologia della nonna ci interessa però in particolare la visione di chi padroneggia le conoscenze tecniche nelle arti culinarie, gli chef. ecco dunque i racconti di Davide Guidara, di Alberto Gipponi e di Antonia Klugmann.

Polpo alla Luciana di chef Davide Guidara

Davide Guidara – I Tenerumi

«La retorica della nonna viene da una resistenza al cambiamento. Da questo punto di vista, noi italiani siamo patriottici. Ma deriva anche da un retaggio storico consolidato: “si è sempre fatto così”. Una retorica a partire dalla quale abbiamo pensato di costruire le basi della nostra cucina. È un percorso storico, culturale e gastronomico conservatore, figlio di una visione romantica e prodigiosa della nonna, che però così rischia di diventare quasi caricaturale. Da un lato, si difende tale patrimonio a spada tratta perché si è capito che le nonne di oggi — quelle del brodo di gallina fatto in casa — non ci saranno più, data la frenesia della vita moderna che spinge le nuove generazioni a consumare pasti pronti e super veloci; dall’altro però capita che al ristorante si voglia una carbocrema “morbida” o che ci si lamenti di un arrosto stoppaccioso (tipico invece della cucina casalinga delle nonne). Un paradosso. Ci sono comunque varie cose di quel tipo di cucina che non vanno bene. Si pensi appunto alle sovracotture, uno dei principi cardine del repertorio, che chiaramente non contempla la possibilità di controllare il grado di cottura attraverso un termometro. “A occhio” porta infatti all’assenza di precisione — si raggiungono temperature imprecise — e alla difficile replicabilità delle ricette, fattore viceversa chiave nella cucina d’autore. Con le cose che stanno cambiando in fretta, una versione di quella cucina, il suo upgrade, praticamente la cucina della nonna 2.0, si troverà giusto nelle “nuove trattorie” (di moderna concezione)».

Aglio e Olio di Alberto Gipponi. Foto di Chiara Cadeddu

Alberto Gipponi — Dina

«L’etimo di tradizione è tradere, che in latino significa consegnare (al nemico). Ci sono mode come questa della nonna che ce la fanno e diventano Tradizione. In tal caso attraverso i gesti di donne delle campagne, che 80 anni fa avevano il tempo da dedicare al cibo e a una certa profondità di sapori. Mia nonna veniva da quel substrato rurale e poi si è ritrovata a cucinare con i prodotti della grande industria, quella persistenza dolce-umami tipicamente industriale che corrisponde al sapore impresso nella memoria di molti. A seconda poi del territorio e contesto storico da cui si proviene cambia la percezione del gusto. Il ricordo delle polpette o della lasagna della nonna, preparati probabilmente con diecimila errori tecnici e ingredienti non proprio straordinari, costruiscono però quell’imprinting palatale e gustativo, un primo lessico, quel piacere che si veste di memoria per non abbandonarci più. Quest’estetica dell’esperienza, legata al singolo, ci fanno credere che in effetti le nonne siano straordinarie, le migliori cuoche. Ma non lo sono in assoluto. Dunque, non dimenticherei il mito della nonna in relazione al vissuto di ciascun nipote, bensì in senso ampio, rispetto alla totalità della società. Dobbiamo studiare, imparare a conoscere il cibo attraverso gesti e gusto, con la consapevolezza che il valore e la cultura derivano dalla conoscenza, consentendoci così di discernere il bene dal male o dal meno bene».

Rapa rossa, uova di trota e fragole di chef Antonia Klugmann

Antonia Klugmann – L’argine a Vencò

«Il fatto che la donna, costretta per ruolo, fosse la sola responsabile della codifica delle ricette tradizionali all’interno delle case non mi dà un senso di libertà. Mi auguro che intervengano in futuro delle trasformazioni nella divisione sessuale delle mansioni domestiche affinché la custodia delle tradizioni diventi condivisa. Ricordo che l’eccellenza può esserci solo nella libertà. Io mi sento in debito con la mia famiglia perché mi ha regalato invece grande libertà: i miei nonni è come se mi avessero detto “questa è la cucina, giocaci finché vuoi”, senza far passare il concetto che fosse necessario che replicassi quello che mi avevano insegnato o che gli avevo visto fare. Per quanto riguarda la mitizzazione, correlata alla memoria, non ci trovo nulla di male. Questi ricordi danno un peso diverso alla mia cucina, sono un alfabeto che ci lega al territorio in maniera profonda. Non è una cosa emozionale. Oggi ne vivo la profondità culturale proprio perché li ho rielaborati in età adulta senza farmi imbrigliare dalla prospettiva sentimentale e malinconica della cucina di casa. Il tempo che viene speso da parte di chi cucina per noi è un valore assoluto, che prescinde dalla qualità del cibo offerto».

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