Dentro le cucine

"Sono stanco di mangiare. Le pizze napoletane? Gommosa omologazione". Lo sfogo di un grande critico gastronomico

Il mal di mangiare: il giornalista francese François-Régis Gaudry si sfoga e racconta la noia - o la stanchezza - del cibo, tra pizze gommose e omologate e false cucine delle nonne

  • 22 Luglio, 2025

Si confessa uno tra i più noti critici gastronomici d’Oltralpe: in una lunga e molto interessante intervista al magazine Society racconta a Pierre Boisson e Sylvain Gouverneur (con le foto di Aliocha Boi) la sua “stanchezza di mangiare” che ricorda un po’ la ben più drammatica “stanchezza di vivere” del nostro Cesare Pavese che della cultura francese era un profondo e appassionato conoscitore (e quindi può essere disturbato per glossare le riflessioni di un francese che fa della cultura gastronomica il suo mestiere). François-Régis Gaudry giornalista, conduttore radiofonico di On va déguster su France Inter, volto televisivo di Très très bon e autore di libri di successo – è sempre stato «lì dove succede qualcosa e già dove succederà domani», scrive Society che commenta: «Eppure, tra ironia e lucidità, confessa: “Non dovrei dirlo, ma ogni tanto sono un po’ stufo di mangiare”. Una frase che suona come una provocazione per chi vive di cibo e per il cibo (e che arriva a un anno esatto di distanza da un altro grande abbandono per motivi fisici, quello di Pete Wells, critico gastronomico del New York Times). Ma quella di Gaudry non è una resa, piuttosto il segno di una consapevolezza maturata dopo anni passati tra ristoranti, mode culinarie e tavole d’autore». E l’intervista continua, con riflessioni sulla “finta cucina delle nonne“, sul falso mito della pizza napoletana (una gommosa omologazione) e sulla noia di tanti bistrot.

Dallo zaatar a Ottolenghi

Quando arriva un calice di vino e una bevanda all’albicocca e zaatar. Lo zaatar è una miscela di spezie orientale a base di timo, sesamo tostato, sommacco e sale, ma anche origano, maggiorana, finocchio, cumino, coriandolo… Gaudry sorride. «Magnifico! Fantastico!», esclama, salvo poi lanciare una riflessione: «Lo zaatar è ovunque. A Parigi, Barcellona, Londra. Vent’anni fa ci sembrava la settima meraviglia del mondo, oggi è un’ondata levantina che rischia di diventare uno tsunami».

E qui entra in gioco Yotam Ottolenghi, lo chef israeliano che ha trasformato ingredienti come lo zaatar in un marchio globale. «Ottolenghi è stato fulminante. Ha lavorato con uno chef palestinese, Sami Tamimi, con quell’idea un po’ naïf ma bellissima di unire due popoli attraverso la cucina. Il suo libro Jerusalem ha compiuto dieci anni nel 2023, e guardando l’oggi ti chiedi: non abbiamo forse cucinato troppo poco invece di fare la guerra?».
Per Gaudry, questa è la faccia seducente ma anche insidiosa della globalizzazione gastronomica: «Quello che ci entusiasma all’inizio diventa norma, e poi ne siamo prigionieri. È successo con lo zaatar, succede con altri trend che diventano così diffusi da provocare saturazione».

La pizza napoletana e la dittatura del morbido

Il tema si ripete quando parla di pizza napoletana. Per anni Gaudry l’ha celebrata, ma oggi ammette: «Mi sono fatto un po’ fregare. Mi ci sono buttato a capofitto, ogni volta che c’era una pizza napoletana correvo a parlarne alla radio. Poi un amico siciliano, Bartolo Calderone, mi ha detto: “Guarda che non stai parlando della pizza giusta.” E aveva ragione». Colpa di un fenomeno Instagram che premia le pizze gonfie, iper-soft, “che fanno scena sui social perché sono comfort food senza croccantezza né masticazione”. È solo morbido su morbido. Lo stesso vale per il flan: vogliamo cibi da infanzia, i doudou alimentari che rassicurano. Ci stiamo rammollendo».

Non è nostalgia, è una riflessione sul nostro rapporto con il cibo e con le mode che fagocitano tutto. «Ci entusiasmiamo come bambini davanti all’albero di Natale e qualche anno dopo ci viene da dire “pffff”. È successo anche con il filetto al pepe, un piatto borghese dei Gloriosi Trenta: tornato di moda, ora è un cliché onnipresente nei bistrot».

Italia: tra Niko Romito e le nonne vere

La chiacchierata si sposta sull’Italia, paese che Gaudry conosce e ama. Parla di Niko Romito, chef abruzzese che considera un’eccezione: «Negli Abruzzi da Romito è incredibile. Un’esperienza che ti riconcilia con l’alta cucina». Ma al di fuori di casi rari, oggi lo emoziona di più la semplicità: «Quando sono in Italia, quello che mi interessa è la trattoria dietro l’angolo, per mangiare la pasta a nove euro. Non lo dico per snobismo, è che andiamo verso questo. Non ho voglia di sbattermi con uno chef italiano pretenzioso, tatuato, che ti spiega: “Ho reinterpretato la pasta di mia nonna”. Sai che c’è? Fammi la pasta di tua nonna e basta. L’amatriciana, punto».
Un’affermazione che è insieme dichiarazione d’amore per la cucina popolare e stoccata alle derive creative senza sostanza, lasciano intendere gli intervistatori.

La fatica del mestiere e la voglia di fermarsi

Dietro la leggerezza di queste battute – scrivono Pierre Boisson e Sylvain Gouverneur – c’è anche un logoramento fisico. «A un certo punto facevo cinque-otto ristoranti a settimana. Ora mi sono calmato, perché bisogna fare pause per ritrovare la voglia di mangiare».
Nel 2012 un burn-out lo ha costretto a letto per due mesi. Da allora ha imparato a inserire pause di yoga e ritiri meditativi. Ma la dipendenza dal ritmo del lavoro resta: «Dormo lavoro, penso lavoro. È quasi un’addiction».
Mangiare bene a Parigi, poi, è sempre più difficile. «Se entri nel primo ristorante che capita hai due probabilità su tre che sia mediocre. Molti si sono arresi alla facilità dei grandi supermercati per chef, dove compri fondi di salsa in polvere e li allunghi con acqua calda».

Mode, violenze e ombre in cucina

Gaudry non ignora nemmeno le ombre della ristorazione. Dal caso Jean Imbert alle denunce di violenza nei ristoranti francesi, commenta con cautela: «C’è un’omertà incredibile. Ogni tanto giovani cuochi arrivano a pezzi e capisci che hanno subito qualcosa. In passato si chiudevano apprendisti nelle celle frigorifere o si facevano punizioni assurde. È una realtà che si trascina».
Il suo sguardo, però, non è moralista – commentano i giornalisti di Society – È un tentativo di raccontare un mondo complesso, fatto di passione ma anche di dinamiche tossiche.

Tra autenticità e disincanto

Alla fine della conversazione, Gaudry torna al punto di partenza: la necessità di distinguere tra la cucina che emoziona davvero e quella che vive solo di estetica. «Per tre chef che sono nello show del fine dining, ce n’è solo uno davvero geniale che mi fa venire voglia di tornare a tavola. Ma, onestamente, ogni tanto sogno solo la pasta della nonna, senza fronzoli».
E mentre si alza per andare, in ritardo, promette comunque di passare da un piccolo vietnamita consigliato da un amico. Non per mangiare, ma forse solo per ritrovare, per un attimo, quell’emozione che a volte si perde tra troppe forchettate.

*Le foto sono screenshot dalla pagina Instagram di François-Régis Gaudry e sono di Aliocha Boi per Society

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