Ristoranti

Piatti con nomi didascalici, troppo lunghi o evocativi. Gioie e dolori dei menu dei ristoranti stellati e forchettati

Ecco le varie tendenze nel modo in cui vengono indicati i piatti nel menu dei ristoranti fine dining

  • 19 Agosto, 2025

Caro piatto, come ti chiami? O meglio: come ti chiamo? La scelta del nome del piatto nella ristorazione cosiddetta fine dining non è poi così banale: racconta molto del ristorante in cui ti trovi e di quello che potrai aspettarti. E in fondo influenza la narrazione del piatto, tema caldo dell’esperienza stessa della cena.

Il menu didascalico del Pescatore Santini a Canneto sull’Oglio

La didascalia

Quando si scrive il nome del menu sul piatto si possono fare varie scelte. Si può optare per la didascalia pura, elencando per filo e per segno ogni ingrediente e come viene cucinato. Qualche esempio? Il Risotto con parmigiano, aceto balsamico, sandalo e incenso delle Calandre e la Sogliola, patata affumicata, emulsione di funghi, vinaigrette di calamari e lemongrass di Casa Perbellini 12 Apostoli.

I vantaggi di questa scelta sono piuttosto chiari, il cliente sa subito che cosa potrà aspettarsi, se c’è qualche ingrediente che non gradisce o che addirittura non potrà mangiare (anche se resta la regola per il cliente di segnalare preventivamente e chiaramente eventuali allergie, intolleranze o regimi dietetici particolari, e per il cameriere di domandarlo).

Lo svantaggio è che leggere due righe di piatto (nel caso del Pescatore di Canneto vanno segnalate certamente le Lasagnette con reale di scottona dai pascoli di Cascina Runate, cime di rapa, cipolla rossa di Tropea e senape in grani) è faticoso e noioso, specie se la lettura va moltiplicata per i sei-otto-dieci piatti che compongono un menu degustazione o per la ventina di piatti della carta.

E poi spesso il ristoratore pretende di infilare in quelle righe anche la provenienza di alcuni ingredienti (che ha un senso soltanto in alcuni casi) e il nome del fornitore, appesantendo ulteriormente il testo. La cosa può essere positiva se poi al momento del servizio il cameriere opta per una descrizione stringata, rimandando in qualche modo alla declamazione del menu. Cosa che, lo diciamo per esperienza personale, spesso non accade. A voce viene proposta la stessa pappardella stampata sulla carta. Due narrazioni al prezzo di una.

Il menu poetico di Massimo Bottura all’Osteria Francescana

La fantasia

All’estremo opposto ci sono i nomi dei piatti di fantasia, poetici, spiritosi o evocativi. In molti casi si tratta di veri titoli che poco lasciano immaginare del contenuto: A… Est di Piazza Duomo ad Alba, 0,01% della Pergola di Roma, …e adesso chi lava i piatti? Della Madonnina del Pescatore di Senigallia, Art is Not a Crime di Danì Maison a Ischia, Sott’o Sole di Quattro Passi a Nerano, il trittico I atto, l’introduzione, II atto, gli eventi e lo status quo, III Il cambiamento e la risoluzione che apre in maniera ungarettiana il menu XL che celebra i quarant’anni di cucina di Anthony Genovese al Pagliaccio di Roma.

In altri casi al cliente viene almeno fornito un indizio: Suono N’uovo delle Calandre di Rubano, Jazz Duck: improvvisazione dell’Osteria Francescana, In-Caponata di La Rei Natura a Serralunga d’Alba, Uovo all’uovo di Da Vittorio, Scampagnata di una melanzana della Madia di Licata. Certo è che piatti così identificati necessiteranno una spiegazione più dettagliata al momento dell’ordinazione e sarà forse quello il momento in cui tanta poesia mostrerà il suo lato B. Anche perché per quanto ci vogliamo girare attorno la cucina non sarà mai come l’arte, dove un nome può essere enigmatico e la percezione dell’opera può essere affidata alla pura emozione. Noi di un piatto, alla fine, vogliamo (e dobbiamo) sapere che cosa c’è dentro e come è stato preparato.

E i “come”?

Variazione sul tema dei nomi di fantasia sono i “come”. Come una parmigiana, come una carbonara, come un brodetto. Nomi francamente irritanti che hanno sostituito la tendenza di qualche anno fa di scrivere “a modio mio” o “la mia”. Fondamentalmente indicano la fonte di ispirazione e fanno immaginare qualche variazione, ma non spiegano di che tipo essa sia. Quindi anche qui segue una lunga spiegazione. Il “come” nei menu è solo irritante. Evitatelo.

Il menu epigrammatico di Norber Niederkofler

Una parola sola

La tendenza che si sta imponendo negli ultimi tempi è quella epigrammatica, che prevede che il piatto sia identificato soltanto con l’ingrediente principale. Lo fa Norbert Niederkofler nel suo Atelier Moessmer (Trota, Risotto, Diaframma, Maiale dei Masi, Tartelletta). Nel caso dello chef altoatesino la scelta è estrema: una parola, al massimo due. Ma del resto siamo in presenza di un menu degustazione fisso (Cook the Mountain), senza possibilità di scelta, quindi i nomi sono semplicemente dei “segnaposto” in un percorso che richiede curiosità e fiducia.

In altri casi il nome dell’ingrediente principale viene accompagnato dagli altri ingredienti, magari scritti con un carattere più piccolo. Fa così Gaetano Trovato da Arnolfo a Colle Val d’Elsa: carattere grande per il primo ingrediente, più piccolo per il secondo, più piccolo ancora per il terzo. Un esempio?  Melanzana anguria cacao, Grano Arso Peperone rosso Bietole Colorate. Meglio dotarsi di buoni occhiali e di una fonte di luce intensa. Simile la scelta di Harry’s Piccolo e Agli Amici di Udine: in grande l’ingrediente protagonista (I Fusilloni, Il Capriolo, Rombo chiodato), sotto, in piccolo, la descrizione.

Il menu elencativo a tre voci di Nin

La trimurti

Variazione di questa specie e forse la soluzione più contemporanea, è quella elencativa, che segue per lo più la regola del tre, coerente con l’idea che vuole la cucina contemporanea proporre in ogni piatto fondamentalmente tre elementi. Molti chef nel menu sciorinano la trimurti e che questo basti: lo fa Verso dei fratelli Capitaneo a Milano (Animella di vitella, ricci di mare e bernese al caffè), Campo del Drago a Montalcino (Bieta dell’Orto, Arancia Sanguinelle, Jus di Coste), Uliassi a Senigallia (Sogliola al vapore, lattuga e bergamotto), Il Piccolo Principe di Viareggio (Linguine, acqua di cipolle, cacio e pepe Timut). Reale sceglie per ogni piatto di indicare due ingredienti (Ostrica e cicoria, Anatra e ginepro, Penne e salvia, sedano e spicgola), solo in pochi casi aggiungendo un’informazione in più (Riso, pesto di basilico, anice e limone).

Il menu con uno, due o tre ingredienti di Reale di Niko Romito

E c’è chi risolve il problema alla radice

E poi c’è chi il problema lo risolve alla radice. Come Giuseppe Iannotti di Krèsios a Telese Terme. Il nome tarantiniano del menu (Mr. Brown) è l’unica informazione fornita assieme al prezzo (190 euro). Poi niente altro. Pura scoperta, estro del momento, pensieri istantanei. Fregandosene dell’anagrafe.

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