C’è chi scambia la tavola per un campo da rugby, e chi invece per un luogo sacro, fatto di gesti misurati, sguardi complici e mai un braccio che invade il piatto altrui. Siamo qui per difendere questi ultimi.
“Mi passi il sale?”, domanda semplice, gesto apparentemente innocuo. Eppure, allungare la mano senza chiedere equivale a un’invasione territoriale, una micro-aggressione che il galateo, con la fermezza di un generale prussiano, condanna da secoli.
Già nel Libro della Corte di Baldassarre Castiglione (1528), si suggeriva di tenere un comportamento “temperato” a tavola, lontano dalla brutalità dei bifolchi. E nel Trattato del Galateo (1558) di Monsignor Della Casa – l’uomo che ha dato il nome stesso alla buona educazione – si ammonisce: mai “por mano altrui innanzi agli occhi, e molto meno dentro al piatto”.
Ora, potrà sembrare eccessivo, ma la tavola è uno dei pochi luoghi dove la civiltà si misura al millimetro: nello spazio tra due bicchieri, nel modo in cui si spezza il pane, nel tono con cui si rivolge la parola a chi ci siede accanto.
Pochi elementi, come il sale, hanno attraversato la storia accumulando così tanto simbolismo: dall’ospitalità antica alle alleanze sacre, dall’amicizia giurata alla gerarchia sociale.
I Romani ci pagavano i soldati (salarium); gli Ebrei, nella Torah, lo offrivano nei sacrifici, non per il sapore, ma per la sua incorruttibilità: non marcisce, non muta, non mente.
Gli Arabi, ancora oggi, dicono “c’è del sale tra noi” per indicare un vincolo profondo, un patto morale.
Persino nel Medioevo europeo, dove l’ospitalità era spesso una questione di vita o di morte, il sale segnava il confine tra chi era accolto e chi restava straniero: i signori lo offrivano ai propri pari; chi sedeva “al di là del sale” era, letteralmente, fuori rango.
Questo linguaggio silenzioso del sale si affina ancora nei secoli successivi. Alla corte di Luigi XIV, ad esempio, la tavola era una coreografia di potere e simboli, dove la saliera d’argento al centro del tavolo non era un semplice accessorio decorativo, ma uno strumento di classificazione sociale. La posizione rispetto al sale – più o meno vicina – indicava chi contava davvero e chi era lì solo per completare il quadro. A Versailles, anche il condimento aveva la sua etichetta.
E poi c’è Leonardo. Ora, non è certo un teorico del bon ton, né lo troverete intento a scrivere manuali di buone maniere. Ma il suo lavoro, da straordinario osservatore della natura umana, lo rende una fonte simbolica preziosa per chi si occupa di comportamento, rito e rappresentazione sociale.
Nella sua Ultima Cena, ad esempio, Leonardo dipinge Giuda con la saliera rovesciata davanti a sé. Un dettaglio minuscolo ma eloquente: dove il sale cade, cade anche il patto.
Il tradimento comincia lì, in un gesto trascurato. In quella tavola solenne, il sale rovesciato non è solo disordine: è frattura del codice. È il gesto che spezza la sacralità della condivisione.
Ecco perché quel piccolo gesto – quel “me lo prendo da solo” – tradisce molto più che un’insufficienza di bon ton. È la fine di un rito. È il trionfo dell’individualismo sul convivio.
È, caro cliente, l’anticamera della solitudine civilizzata, dove ognuno prende il sale che vuole e nessuno condivide più nulla.
Quindi la prossima volta che il polso scalpita per afferrare il sale al centro tavola, trattienilo. Non è questione di posate, ma di postura morale. Respira. Alza lo sguardo. Chiedi con garbo.
Perché anche il più semplice dei condimenti, in mani impazienti, può diventare detonatore di un piccolo collasso culturale.
Ricorda: il vero sapore della civiltà non è il sale. È il modo in cui lo si chiede.
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