Negli ultimi tempi si è molto discusso della crisi del modello Milano. Io preferisco chiamarla “la perdita di Milano”, nel senso di uno smarrimento delle sue coordinate e della sua identità.
Le inchieste giudiziarie hanno acceso i riflettori su presunte irregolarità nei permessi edilizi, ma il vero problema della città non è giudiziario, e affonda le radici ben prima di eventuali concessioni fraudolente. Milano ha perso gran parte della propria identità, diventando una città sempre più pensata per benestanti e percettori di rendita, e sempre meno per chi desiderava lavorare, studiare, costruirsi una posizione sfruttando quell’ascensore sociale che una volta era naturale, seppur faticoso.
Questa perdita d’identità, non dico sia cominciata, ma ha sicuramente avuto i suoi primi segnali inequivocabili nella trasformazione della tavola milanese.
Milano, non essendo mai stata città turistica, vantava un’offerta gastronomica — anche di altissimo livello — estremamente variegata. E, soprattutto, anche popolare nel senso più nobile: priva quasi del tutto di dozzinali trappole per turisti. Tutto questo, negli anni del boom post-Expo, è rapidamente svanito. La ristorazione di bassissima lega ha invaso le vie della movida, diventate, nei peggiori incubi del turismo di massa, schiere indistinte di locali ugualmente volgari e intercambiabili.
Laddove un tempo c’era una qualità solida, talvolta elitaria, ma con una funzione chiara — servire la borghesia produttiva della città — oggi proliferano locali orrendi, senza identità né futuro, nati solo per racimolare denaro. In questa deriva rientrano le trattorie con nomi milanesi ridicoli, magari aperte da rampolli di grandi famiglie che giocano con l’eredità, e le trattorie romane trapiantate, che come ho già scritto altrove sono il simbolo di una regressione infantile del gusto.
Il corrispettivo gastronomico dei grattacieli è rappresentato dai bistrot nati per minimizzare le perdite dei ristoranti stellati, o da certi artigiani (categoria che rispetto e amo) che però si sono montati la testa, e ora vendono un semplice quanto buono caffè o un piatto di quinto quarto al quadruplo del loro prezzo naturale.
Milano si era già persa a tavola. Speriamo, però, che proprio da lì possa ritrovare un senso nuovo, una forma di redenzione. Continuando a correre — com’è nella sua natura — ma senza dimenticare quella sobrietà, rigorosa e mai dimessa, che è la cifra fondamentale dell’essere davvero meneghini.
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