Addio

Senza Stefano Benni il mito del nostro bar all'angolo non sarebbe mai esistito (ma la Luisona gli stava "sui coglioni")

L'immagine del bar di provincia, il flipper che fa plin-plon, l’aria satura di fumo e una brioche gigante che nessuno osa mangiare. Ecco l'eredità enorme di uno scrittore che ci mancherà

  • 09 Settembre, 2025

Immaginate di entrare in un bar che non è solo un bar. L’aria è satura di fumo di sigaretta, il flipper emette il suo caratteristico suono rotto plin-plon, e il telefono a gettoni è pronto a inghiottire le monete. Dietro il bancone, il barista con il grembiule macchiato di caffè serve con un sorriso che sa di routine. Ma il vero protagonista è lei: la Luisona. Una brioche che sembra sfidare le leggi della gastronomia, con la sua forma massiccia e la crema che non si sa se è rancida o leggendaria. È lì da anni, forse decenni, eppure nessuno osa mangiarla. È più un monumento che un dolce. Una scena che in moltissimi conoscono, che altrettanti hanno letto, che potrebbe sembrare surreale ma è un quadro invecchiato di un’Italia che non c’è più. Ma soprattutto è la magica realtà del Bar Sport, il celebre racconto Stefano Benni, che quell’Italia l’ha colta in profondità.

Addio a Stefano Benni

La Luisona, con la sua presenza ingombrante e la sua storia silenziosa, rappresenta l’epoca d’oro dei bar di provincia, luoghi di incontro, di storie, di drammi e di risate. Ma oggi, quel dolce immangiabile è orfano del suo scrittore, così come lo è l’Italia tutta: Benni è morto, lasciando un vuoto profondo nella nostra letteratura, e nei migliaia di Boomer e Millennial che lo hanno conosciuto proprio grazie a quella “pastarella” invecchiata e iconica. Con lui se ne va anche un modo di raccontare l’Italia che includeva ironia e poesia, uno specchio riflesso sulla quotidianità del nostro paese, e dei suoi luoghi sociali, come il bar, simbolo di incontro che sta scomparendo/cambiando.

Non ce ne vorrà Benni se lo ricordiamo per l’unica cosa per cui non voleva essere ricordato. Lui stesso ironizzava sul successo incredibile che il volume pubblicato per la prima volta nel marzo del 1976 da Mondadori ha avuto in quattro decenni abbondanti, in particolare in un video pubblicato da Feltrinelli in cui parla della Luisona: «Nessuno può mangiarla e digerirla, perché lei è la madre di tutti i trigliceridi. Lei è un monolite zuccherato. Chi ci ha provato in passato ha pagato con una colica fatale», diceva. E poi la confessione detta guardando il dolce gigante: «Sono quarant’anni che mi stai sui coglioni, ho scritto decine di libri ma per migliaia di lettori sono “quello della Luisona”». Come dargli torto. Ma certo è che il successo di quel dolce inclassificabile è legato soprattutto al momento sociale che il libro ha avuto l’ambizione di raccontare, tra situazioni reali stereotipate, deformate ed estremizzate. Benni in purezza.

Lo scrittore meglio di altri ha saputo cogliere l’essenza di un’Italia che viveva nei piccoli gesti quotidiani, nei bar affollati, nelle chiacchiere tra sconosciuti. La sua scrittura era un mix di fantasia e realtà, dove il cibo e i luoghi comuni diventavano metafore di una società in cambiamento.

Nel Bar Sport di Benni, come in tanti altri bar italiani di quegli anni, ogni angolo racconta una storia. C’è il vecchio che gioca a carte con una dedizione quasi religiosa, e che ogni tanto, tra un asso e un fante, lascia scappare un aneddoto che sembra uscito da un romanzo. C’è il meccanico, convinto che le sue mani robuste e precise possano vincere sempre al flipper, anche quando il gioco sembra una questione di pura fortuna. E c’è il ragazzo con gli occhiali spessi, che osserva con occhi curiosi e confusi le regole improvvisate del calcio balilla o dei giochi inventati sul momento, cercando di capire come si fa a vincere e ridendo ogni volta che fallisce. Benni racconta tutto questo con uno sguardo ironico e affettuoso: ogni gesto, ogni sorriso storto, diventa una cartolina dell’Italia di provincia, sospesa tra leggenda e quotidianità. Il bar come luogo di incontro, e non solo di nutrimento.

E poi c’erano le gare impossibili, quelle che nessuno osava replicare fuori dal Bar Sport. La corsa delle lumache, dove tutti tifavano come se l’Italia giocasse al Mondiale, e la sfida della bottiglia da due litri di vino bianco, che ogni volta finiva con il barista che sospirava e i partecipanti che ridevano fino alle lacrime. Che nostalgia, Benni! Ogni aneddoto era intriso di umanità, di quella magia semplice che solo lo scrittore sapeva catturare: un’umanità fatta di gol di flipper, brioche gigantesche e chiacchiere che duravano fino all’ora di chiusura. Per questo, ancora oggi parliamo di quel piccolo bar di provincia e del suo dolce brutto e immangiabile.

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