Agitazioni, porti bloccati, trasporti in tilt, presidi e cortei in diverse città italiane. L’Italia scende in piazza per esprimere la propria protesta contro quello che sta accadendo a Gaza. E se per una volta il confronto con i cugini d’oltralpe (almeno per quanto riguarda la severità delle mobilitazioni) non è così schiacciante lo si deve alle organizzazioni e ai singoli che hanno aderito allo sciopero indetto dai sindacati di base per questo lunedì 22 settembre, in contemporanea all’Assemblea Generale dell’Onu in svolgimento a New York dove si discute proprio della questione palestinese. Il tema caldo è il riconoscimento dello stato di Palestina, che negli ultimi giorni continua a collezionare adesioni nel mondo.
La mobilitazione di lunedì, che segue quella di venerdì 19, ha un obiettivo chiaro: «blocchiamo tutto». Questa la consegna che è rimpallata da una parte all’altra della Penisola. Da Genova, in prima linea già con il varo simbolico della Global Sumud Flotilla e dove oggi sono cominciate le agitazioni sin dall’alba con il blocco dei varchi portuali, al molo San Nicola di Bari, dalle molte manifestazioni nei comuni della Sardegna, a Bologna dove i manifestanti hanno boccato l’autostrada e poi ancora Torino, Milano, Roma, Catania, Napoli dove la protesta è arrivata fin sui binari della Stazione Centrale. L’Italia è scesa in piazza, associazioni di categoria, sindacati, terzo settore, ma anche singoli cittadini. «Oggi resteremo chiusi per scioperare a sostegno della causa palestinese perché oltre a fare cose buone bisogna anche fare cose giuste» si legge sul canale social di Indigeno, ristorante veg capitolino, in quel Pigneto che in questo 22 settembre è attraversato da una protesta organizzata dai residenti e dal sindacato intercategoriale Cobas e che lo riunisce a Torpignattara e Quadraro in uno “sciopero di quartiere”. Ma sarebbe un errore pensare che tutto si esaurisca nelle iniziative di aree cittadine storicamente più attive.
Sono circa 80 le piazze annunciate alla vigilia dello sciopero, ma ci sono anche molte prese di posizione individuali: Giulio Gigli, per esempio, ha deciso di chiudere il suo ristorante Une a pranzo, avendo una evento serale non cancellabile. «Appena uscita la data dello sciopero abbiamo bloccato le prenotazioni» spiega. Il pranzo del lunedì a Capodacqua, a dispetto di quel che si potrebbe pensare, non è un turno debole, spesso ad alto tasso di addetti ai lavori e ristoratori in libera uscita. Rinunciarvi non è cosa da poco, per un’attività giovane e senza finanziatori che vive di clienti, e di sacrifici. «Per me e per noi era un gesto di solidarietà per l’iniziativa, so che è solo una voce in più, niente di che, ma nel nostro piccolo volevamo esserci. Non è neanche una questione politica, di destra o sinistra, ma un piccolo gesto di umanità».
«Appena abbiamo saputo di questa giornata, abbiamo pensato subito di aderire, semplicemente per esserci – fa eco Marco Baccanelli, chef e patron, insieme a Francesca Barreca, di Mazzo a Roma – non possiamo fare molto, ma è un gesto simbolico che riteniamo importante. Un ristorante non è solo ristorante: è comunità e dovrebbe vivere un senso civico che per noi è anche questo. Del resto, mi sembra davvero semplice e al tempo stesso indispensabile dire stop a questo massacro». Allora si rinuncia a un incasso: «Oggi eravamo pieni, era tutto prenotato e abbiamo deciso di avvertire tutti e di chiudere. Non possiamo fare finta di nulla. E non è una questione politica, ma una cosa che riguarda l’umanità, il sociale». Non è sempre fattibile chiudere, ma questo non significa non prendere posizione, come racconta Fabiana Gargioli, di Armando al Pantheon, che ha documentato sui canali social la manifestazione capitolina, che ha bloccato la stazione Termini e tutta l’area limitrofa, ma senza chiudere il ristorante: «oggi avevamo tutte prenotazioni di stranieri, fatte più di un mese fa, abbiamo mandato qualche email per avvisare, ma abbiamo capito che non era stato possibile chiudere».
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E allora c’è stata la partecipazione personale, come pure ha fatto Cesare Battisti di Ratanà, in piazza sotto al diluvio che ha allagato letteralmente le strade di Milano, o Mirko Pelosi dell’Enoteca L’antidoto – «Oggi cucino con quello che ho, stamattina sono andato alla manifestazione, non ho comprato nulla». Anche questo è un modo per parlare con i propri clienti e avere un approccio divulgativo rispetto alle proprie scelte. Più semplice da fare in un grande centro, forse. Ma quando si lavora in provincia? Aprudia, a Gulianova, doveva riaprire oggi, «ma quando abbiamo saputo della manifestazione abbiamo aderito subito» racconta Enzo di Pasquale. E quali sono state le reazioni? «Quando abbiamo comunicato la nostra decisione abbiamo riscontrato un consenso importante dalle persone che ci seguono».
Senza nessuna manifestazione di piazza forse è più difficile spiegare le proprie ragioni, «so che è una goccia in mezzo al mare ma non so come altro fare e non so neanche se sia utile. Come essere umano e come persona civile faccio fatica a capire cosa posso fare. Di sicuro chi sta manifestando a Roma o Milano avrà un’eco maggiore. Per me era una manifestazione a cui partecipare. Punto». È una questione di coscienza: «Come essere umano sono disgustato per quello che sta succedendo a Gaza. Anche se poi non c’è solo Gaza: ci sono tante situazioni terribili, capitoli enormi da approfondire, è un disastro». A Genova la gelateria Gelatina chiude: «Tutti possiamo fare qualcosa, anche un’attività privata può fermarsi». Non è l’unica, oggi sono tanti i negozi che per poche ore o per tutto il giorno tengono la serranda abbassata per unirsi alla protesta. Tutti con lo stesso dubbio, ma con l stessa convinzione: «anche fosse solo un segnale, è importante farlo».
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