Guerre commerciali

“Ci sarà il panico e incertezza, ma reagiremo”: la ristorazione italiana a New York non si arrende ai dazi

Il settore agroalimentare italiano affronta la guerra commerciale voluta da Trump: aumenti, consumi in calo e la sfida di restare autentici in un mercato che cambia

  • 06 Agosto, 2025

Conto alla rovescia per il D-Day, fissato per il 7 agosto, giorno in cui entreranno in vigore i dazi dopo l’ordine esecutivo firmato lo scorso giovedì dal presidente Donald Trump, che ha confermato le tariffe commerciali al 15 per cento per le merci dall’Unione Europa. E mentre gli sherpa lavorano nella speranza di ottenere delle esenzioni in alcuni settori, il mondo agroalimentare italiano comincia a fare i conti. Dall’altra parte dell’oceano – ristoratori, importatori, ambasciatori del Made in Italy – si preparano alle conseguenze che scaturiranno dai dazi con consapevolezza, lucidità e anche con quella sana resilienza e pragmatismo che caratterizza la tempra newyorchese.

Tutti sono d’accordo su una linea di pensiero: “nessun compromesso sulla qualità, difendiamo il Made in Italy”.   Viaggio nella Grande Mela che, dazi o non dazi, sta vivendo una trasformazione della ristorazione, tra contrazione dei consumi del vino, aumento dei costi della materia prima, un’inflazione e un dollaro sempre più debole.

Giusto Priola, ristoratore e proprietario da ventuno anni di Cacio e Pepe, da sei anni delle due location di Pasta Eater, tutti ristoranti italiani a Manhattan, è abbastanza realista sulla questione dazi. “Dalla pandemia in poi – commenta Giusto –  i prezzi sono schizzati in alto: dall’affitto, il trasporto della merce, i salari. E ora i dazi. In sei anni, il pomodoro è aumentato di 10 dollari portando un piatto di spaghetti al pomodoro a 22 dollari nel menù della cena. Si certo, gli americani continuano a consumare – meno vino e più cocktail- ma a soffrire è il classico ristorante mentre funziona lo street food e le formule con menù veloci e immediati. Resiste la pasta, che ha sempre buoni margini di guadagno”. Chi pagherà il costo dei dazi? Giusto Priola non ha dubbi: “tutti ma soprattutto il consumatore. Io sarò costretto presto ad aumentare di due dollari i piatti del nuovo menù”. Il salario minimo nello stato di New York è attualmente di 16.50 dollari e c’è chi ha già incluso una mancia del 20%  al ristorante, facendo lievitare ulteriormente il conto finale.

Salvatore Fraterrigo, proprietario del ristorante siciliano Norma, tre sedi in zone strategiche di Manhattan, da qualche anno ha fondato la società di importazione e distribuzione “Norma group management”, che importa e distribuisce -principalmente  per i suoi ristoranti – pomodoro pelato, busiate, riso , farina, e produce olio in Sicilia con il marchio Norma. “C’è molta incertezza e questo non farà che dare vita ad alcune speculazioni ed allarmismi. L’aumento dei prezzi è già una realtà, a New York è inevitabile. Gli effetti si vedono: in alcuni casi una pizza margherita costa venti dollari”– commenta Fraterrigo.

Anche Fraterrigo sottolinea due aspetti rilevanti: dall’inizio dell’anno, il dollaro si è svalutato del 13,8 per cento rispetto all’euro portando ad un 20 per cento in più-  tra aumenti e cambio – gli acquisti delle materie prime dall’Italia, c’è una diminuzione della clientela a seguito di un’offerta eccessiva nella ristorazione della Grande Mela.

“Nessun compromesso sulla qualità e direzione solida sulla difesa del Made n Italy”. Non ha dubbi Ciro Iovine, pizza chef e patron delle tre pizzerie Song’ E Napule (tre spicchi Gambero rosso), un riferimento e un’icona a New York.

“Continueremo con orgoglio a portare in alto il nome dell’Italia, rappresentandola con prodotti d’eccellenza, autentici, selezionati e lavorati nel rispetto della nostra tradizione – commenta Ciro. Se il mondo cambia, anche noi ci adeguiamo. E’ naturale che alcuni costi subiscano un incremento ma sarà sempre proporzionato al valore che offriamo. La nostra priorità resta una sola: offrire un’esperienza italiana vera, fatta di passione, cultura e sapori che raccontano la nostra terra in ogni piatto”.

Michele Mazza e Raffaele Solinas, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione italiana chef a New York, entrambi ristoratori e chef, non si arrendono di fronte alla minaccia dei dazi e affrontano con pragmatismo l’arrivo degli aumenti, continuando con la missione dell’associazione: promuovere oltreoceano l’eccellenza del Made in Italy e intercettare i cambiamenti.

“Il consumatore che conosce la qualità non si farà scoraggiare da un aumento di cinque dollari – commentano Solinas e Mazza. Il problema sarà per chi importa volumi consistenti, l’impatto si farà sentire meno nella ristorazione che già – continuano  – sta attraversando una serie di cambiamenti legati al consumo e ai gusti dei giovani, sempre più orientati a spendere meno e seguire le mode dei social”. “La ristorazione italiana riscuote un grande consenso a New York, perché è una cucina per tutti, popolare. La formula e il format vincente? “Pasta, pizza, un format fresco, dinamico, competitivo e trendy”, concludono Solinas e Mazza.

Se il consumatore americano oggi conosce non solo i prodotti iconici, come pasta e parmigiano, ma anche i prodotti di nicchia come il panettone artigianale o il tonno siciliano, è anche grazie a Beatrice Ughi, fondatrice nel 1999 di Gustiamo, azienda che importa e distribuisce le eccellenze italiane negli Stati Uniti – tra il sito e-commerce, la ristorazione e gastronomie, lavorando esclusivamente con piccoli produttori artigianali di qualità.

“Mi aspetto diverse criticità – commenta Beatrice-  legate alla necessità di aumentare necessariamente i prezzi, alla fedeltà dei nostri clienti che potrebbe anche venire meno se gli aumenti crescono ancora, all’italian sounding e ai prodotti di scarsa qualità che potrebbero prendere piede”. Ma gli aumenti non sono solo una novità legata ai dazi. “La debolezza del dollaro rispetto all’euro, i dazi già presenti su alcune merci come il tonno, la pasta, non hanno fatto altro che lievitare i costi. I nostri produttori e fornitori sono piccoli e non potranno assorbire questo aumento che, ahimè, graverà nelle tasche dei consumatori”, conclude Beatrice Ughi.

Stesse previsioni per Ciro Salvia di Conca d’Oro, azienda di import ed export in tutti gli Stat Uniti , fondata insieme a fratello Paolo. Una distribuzione quasi capillare in tutti gli Stati Uniti di prodotti italiani che vanno dall’ entry level al gourmet e premium, come pasta, aceto, olio, pistacchio. Una rete di distribuzione che fonda il suo core business nella ristorazione ma anche nell distribuzione nei supermercati, ristoranti, pasticcerie, retail. “Se vogliamo che il Made in Italy sia sempre sinonimo di qualità non possiamo abbassare i prezzi, aggiunge Ciro. Ci saranno dei prodotti che forse saranno più penalizzati come aceto balsamico, sughi ma non credo che il mercato americano potrà fare a meno di pasta, olio, aceto, acqua minerale. Mi preoccupano le speculazioni e gli speculatori che hanno approfittato dell’incertezza e dell’allarmismo generato da questa guerra commerciale”.

E se il mondo del cibo non vuole guardare il piatto vuoto, quello del vino non sa se il bicchiere è ancora mezzo pieno. Prima della scure dei dazi, a minacciare il mondo del vino nell’altra sponda dell’Oceano Atlantico è la flessione dei consumi dovuta a motivi salutari, abitudini e di health warning che demonizzando l’alcol.

“I dazi faranno perdere il lavoro agli americani, danneggeranno sia i produttori americani che quelli europei, indeboliranno i distributori americani, esordisce Gino Colangelo, fondatore e alla guida di Colangelo & Partners, una delle più importanti agenzie di comunicazione e pr specializzata in food&wine, con sede negli Stati Uniti. Gli importatori che lavorano con prodotti di nicchia e boutique winery potrebbero essere costretti a chiudere, con conseguente perdita di posti di lavoro negli Stati Uniti e limitazione dell’accesso al mercato statunitense per i produttori italiani a conduzione familiare. Come minimo, le aziende vinicole italiane e i loro importatori statunitensi dovranno tagliare i budget per il marketing, il che limiterà le opportunità di promozione, formazione comunicazioni ed eventi, rendendo il mercato del vino oltreoceano meno solido e consapevole rispetto ad un prodotto come il vino.  Oltre a tagliare i costi, ovvero ridurre gli investimenti negli Stati Uniti, i produttori italiani non possono fare molto rispetto al mercato statunitense. Possono esplorare altri mercati, il che è una soluzione a lungo termine ma non risolve il problema a breve termine. Per quanto riguarda i distributori, anche loro taglieranno i costi, il che di solito significa tagliare posti di lavoro”, conclude Gino Colangelo.

Per  Marco Ballarin, regional sales manager di Ethica Wines, società che importa e distribuisce vino italiano, “bisogna continuare a trovare nuove opportunità, essere dinamici, adattarsi e capire quello che chiede il mercato. Ai dazi sarà più sensibile la fascia entry e medium level del vino,  dove il prezzo farà la differenza sulla scelta.  Per questo, bisogna muoversi bene nel mercato lavorando in sinergia con i propri clienti”.

Un’analisi attenta e razionale arriva da Dino Borri, per oltre sedici anni head buyer per Eataly, e responsabile delle aperture nel resto del mondo. Dino, che oggi lavora a New York come libero professionista affiancando imprenditori nel mondo del food, hospitality, conosce bene il mercato estero e, in particolare, quello a stelle e strisce.

“L’incertezza in materia di dazi non ha dato il tempo di pianificare bene le strategie: ognuno negozierà come ammortizzare i costi all’interno della filiera. Credo che ad essere penalizzato sarà tutto l’agroalimentare europeo e le conseguenze saranno uguali per tutti: aumento dei prezzi finali e del costo di lavoro, contrazione degli acquisti e dei consumi,  speculazione. Ci sarà una fascia penalizzata, media e entry, e quella premium che soffrirà di meno. Sicuramente, i margini delle aziende verranno erosi. Produrre qui non è economico e alcune cose – come il vino dell’Etna – non sono riproducibili fuori da un territorio specifico. Tra sei mesi capiremo se il consumatore vorrà ancora comprare prodotti di qualità o scegliere sulla base del prezzo più economico. Nel frattempo, ci sarà il panico”.

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