Notizie / Attualità / “Si beve meno per colpa della povertà dilagante. I no alcol? Non sono vini”. Sabino Loffredo racconta la sua idea di viticoltura

Il personaggio

"Si beve meno per colpa della povertà dilagante. I no alcol? Non sono vini". Sabino Loffredo racconta la sua idea di viticoltura

Il produttore controcorrente spiega perché ha rinunciato alla Doc e presenta il suo Pinot Nero dell'Irpinia. Novità in arrivo dalla prossima vendemmia: parte della produzione sarà imbottigliata col tappo a vite

  • 19 Giugno, 2025

Sul cartello appeso al cancello di ingresso c’è scritto “non si vende”. A non sapere dove si sta entrando, verrebbe da chiedersi cosa non si vende. Ma chi si inerpica in questa strada scoscesa senza neppure un segnale rassicurante che si è nella giusta direzione, immagina bene cosa non si vende. È il vino di Sabino Loffredo e quel cancello è l’ingresso della sua azienda, Pietracupa.
Inutile cercare indicazioni più accurate, “qui si vive così”, in quell’Irpinia che in lingua osca significa lupo, un po’ come lo sono anche i suoi abitanti. Diventati schivi, forse, per una stessa necessità geografica, tra valli e altipiani segnati da sorgenti, laghi, torrenti e fiumi che si susseguono così da rendere difficile parlare anche di un’Irpinia tout court. Più facile, invece, immaginarla come un puzzle da completare collina dopo collina.

 

Calo dei consumi e svalutazione ei vini

Per rompere il ghiaccio, chiediamo a Sabino come vive le attuali tendenze nel mondo del vino, tra no-alcol e crisi di mercato. Ma lui non è uomo da seguire la corrente: sui no alcol neppure vuole perderci tempo. «Non sono vini, non possono essere chiamati vino visto che non lo sono». E la crisi? «Se non si beve più – afferma – è molto a causa della povertà che circola tra i consumatori e che non fa sconti in nessun continente. «Io, comunque, me le tengo in cantina le mie bottiglie», fa lui. E così anziché contribuire alla svalutazione, punta a restituirgli più valore tra qualche anno, in attesa di cambi di rotta della recessione.
Poi Sabino stappa una bottiglia e bisbiglia «il tappo è integro» e lo dice quasi sollevato, mentre poggia il monopezzo in sughero sul tavolo.

La scelta del tappo a vite

Una preoccupazione che da quest’anno dovrebbe attenuarsi con una parte della nuova produzione che sarà imbottigliata col tappo a vite: «Mi sono lasciato convincere dagli Svitati», sorride parlando del gruppo capitanato dal produttore piemontese Walter Massa diventato pioniere e profeta di questa tipologia di chiusura.
Sabino, allora, al passo coi tempi ci sta, ma con i suoi e con quelli della sua collina. Il cambiamento climatico lo combatte senza cimare, lasciando più grappoli in pianta («Così li raccogli che hanno meno zuccheri») e anticipando le vendemmie.

Montefredane, la collina del Fiano

Torniamo alla collina di Sabino, a Montefredane: più o meno duemila anime per uno dei 26 comuni dove è possibile produrre il Fiano di Avellino, vino con Denominazione di Origine Controllata e Garantita. Ed è qui, in via Vadiaperti, che una volta superato il passaggio a livello con alle spalle la valle del fiume Sabato, (non) iniziano le indicazioni stradali per andare da Sabino. Nelle sue parole nessuna formalità, ma un celato senso di convivialità guizza nei suoi occhi. «La cantina è un po’ un casino oggi, ma venite comunque». Lui fa vino per conto suo, non ha attenzioni per il vicino o per chi è lì intorno, non guarda ai grandi né ai piccoli, ai convenzionali o ai naturali. Lui fa. In un sapere non costruito tra pagine di libri di testo ed esami all’università, ma fatto di intuito e sensibilità, di vendemmie e nottate in una cantina dove sembrerebbe esserci molta poca logica, ma tanta tanta perspicacia.
Così tra fusti di acciaio che paiono essere in attesa di una collocazione e pile di bottiglie accatastate, forse pronte per una spedizione o forse lì dormienti da anni, Sabino sa perfettamente come muoversi.

 

“Greco e Fiano: vini da leggere nel tempo”

La prima annata è datata 1999 e in quella cantina dove non manca anno che quel tufo non possa raccontare, nascosta tra file di Greco 2001, Fiano 2003 o Taurasi 2008, qualcosa probabilmente si troverà ancora. «Ogni anno metto da parte un migliaio di bottiglie»: il conto viene allora facile se in oltre un ventennio ora non c’è più spazio neanche per il passaggio umano.
«Il Greco e il Fiano vanno letti nel tempo», dice mentre leva la polvere da una bottiglia del 2011 e la apre senza curarsi tanto del rumore che fa il tappo.
Nei suoi gesti non c’è nessuna sacralità, né necessità di dire. Tant’è che non dice: versa ed è il vino che gli ruba le parole. È un Fiano di Avellino che ha imparato a parlare dopo quattordici anni e le prime parole che pronuncia sono finezza, profondità ed equilibrio. È diventato un poliglotta prima ancora di saper camminare; ma una parola, però, più delle altre la pronuncia ad alta voce e ben scandita: patriota. «Questo è un vino di Montefredane», assicura, con la terra che acquista la potenza di un Titano andando oltre la valenza di un vitigno.

Le “regole” di Sabino Loffredo oltre la doc

Perché sì, questa è la terra del Fiano, ma Sabino sapeva che quella collina era anche del Greco, con le sue vigne nascoste che dai 400 sfiorano i 600 metri sul mare e sono sempre ben ventilate, godendo di quell’arietta fresca che cala con la notte. Per questo dal 2018 ha riunito tutto nel suo conclave. Ha abbandonato i terreni a Santa Paolina e oggi su quella collinetta, oltre al suo Fiano, produce anche Falanghina e Greco: perde così la fascetta della Doc, ma ne guadagna di maggiore carattere. In tutto sono sette ettari per poco più di 40mila bottiglie. Eppure, sembra quasi uno scherzo pensare che quella fascetta viene persa solo per pochi centimetri – «la strada di fronte è già il comune di Prata Principato Ultra» – dove inizia la parte di valle dominata appunto dal Greco di Tufo e dalla sua denominazione.
Ma il suo è un mondo che ha molto poco a che fare con le regole, con i colori e con i profumi di un disciplinare. I vini escono da via Vadiaperti solo quando decide lui, a volte dopo due anni, a volte tre; a volte, poi, si salta anche l’annata: come nel 2023.
«L’unica Docg che ho conservato è per il Taurasi che produco a Torre le Nocelle, per il resto faccio quello che mi sento», che sembra quasi un paradosso in un mondo cha ondeggia tra le voglie da assecondare dei nuovi consumatori e le spinte del mercato. «A me non interessa: il vino che produco deve piacere prima a me».

Né convenzionale né naturale

E allora, deve esserci necessariamente qualcosa di straordinario nell’essere così tremendamente normale, con quei mosti che per caduta arrivano diretti nei fusti di acciaio e lì e si assestano. Poche le lavorazioni da farci, ma quelle necessarie ci sono tutte, a partire dai lieviti «che sono quelli neutri selezionati», a finire con la solforosa prima dell’imbottigliamento.
Passaggi, questi, che qualcuno definirebbe “convenzionali”, ma che nei vini di Pietracupa non hanno neanche bisogno di definizioni: a parlare di annate, di Montefredane e anche degli umori dello stesso Sabino, sono direttamente loro.
Basta una roteazione, si svegliano e diventano una forma liquida della memoria, di quello che era in quel tempo la collina di Montefredane coi profumi legati alla terra, a quelle gelate impreviste o a quelle grandinate incessanti, con l’intensità legata in cantina all’ostinazione e alle intuizioni di Sabino e ai suoi silenzi.
Quasi a dimostrare, allora, che c’è ben poco merito nell’incastrarsi a tutti in costi in una precisa definizione di conduzione agricola se poi, alla fine, un Greco 2002 mostra di essere più integro di tante norme, regolamenti e generazioni che nel mentre sono passati.

Raccontare il vino senza spiegazioni

«Il vino si racconta da solo, se il produttore si mette davanti a dire o a giustificare cose, allora c’è qualcosa che non va». Ha ragione Sabino, eppure questi racconti a volte da Montefredane non fanno eco, anzi mancano addirittura di voce e restano lì conosciuti ai meno e ignoti ai più.
«Non siamo a Montalcino e non facciamo Brunello», sorride Angelo mentre ritorna dalla vigna con le scarpe ancora piene di terra. Lavora con Sabino da vent’anni, prima si occupava di zootecnologia: «Ho dovuto abbandonare perché il prezzo del latte era troppo basso, come lo sono, però, pure i quintali di Fiano e Greco venduti in zona. In qualche anno si è arrivati pure a 90 centesimi al chilo», racconta lui.
«Mettici poi che il vino non si beve più», dice Sabino mentre arriva con un assaggio di botte: è il G e sembrerebbe un miraggio, visto che l’ultima volta che è apparso sul mercato era il 2010. Poche bottiglie prodotte, mai più di tremila ad annata, per questo Greco di Tufo la cui dote straordinaria è sempre stata di saper innestare in uno la finezza del Fiano e la potenza del Greco. Di lui si conoscono solo tracce in un lontano 2001 e 2003: «L’ho prodotto solo tre volte», sorride. Mentre è ancora sulle fecce la 2023 che potrebbe uscire, forse, nel 2028. E se così sarà, avrà anche il primato di essere il primo G prodotto solo dalla collina di Montefredane.

Il nuovo gioco del Pinot Nero

Anno dopo anno Sabino vede Montefredane crescere, invecchiare, migliorare: asseconda e osserva quella collina nelle sue potenzialità, come per quel mezzo ettaro innestato a Fiano proprio su in cima. Difficile da raggiungere e con un microclima diverso. Tanto che la collina gli ha concesso di innestare su quelle stesse radici delle marze di Pinot Nero.
«È stato un gioco partito nel 2018, l’anno di nascita di Allegra, mia figlia». Quell’anno, però, il vino è diventato aceto; dalla 2019 invece ha tirato fuori un centinaio di bottiglie che ha venduto come Campania Igt Rosso. Si chiama Alleria e le etichette le ha disegnate proprio Allegra che oggi ha sei anni: per ogni annata ha puntato a un colore diverso, così come ogni anno Sabino punta a regolare meglio il tiro, prima con le botti grandi e oggi con barrique francesi esauste prese in prestito da vecchi amici francesi produttori.
Alleria non profuma di Borgogna; né Sabino pare sforzarsi a dargli quel gusto. È un Pinot Nero di Montefredane con la terra che è di nuovo lei a parlare. A volte poi rimbomba, trema e scuote le anime come per Cupo 2020. È il suo gioiello. Un Fiano prodotto solo nelle migliori annate da un’attenta selezione dei grappoli. In dodici anni, dal 2003, ha visto solo otto uscite: «L’ultima è stata nel 2020». Quante ce ne saranno ancora lo deciderà sempre e comunque Montefredane; nel frattempo Sabino è lì, a vivere con quella collina: «Questa è la vita mia».

TI POTREBBE INTERESSARE ANCHE...

Corsi per Appassionati

Corsi per Professionisti

University

Master

© Gambero Rosso SPA – Tutti i diritti riservati.

Made with love by Programmatic Advertising Ltd

Made with love by Programmatic Advertising Ltd

© Gambero Rosso SPA – Tutti i diritti riservati