Secondo l’ultimo rapporto Censis-Camst, pubblicato nel 2025, la pausa pranzo in Italia si consuma sempre più spesso “da casa”. Oltre il 78% dei lavoratori dichiara infatti di mangiare un pasto preparato in ambito domestico e portato con sé sul luogo di lavoro. Non si tratta solo di avanzi: nel 62% dei casi il pranzo viene cucinato appositamente per l’occasione. Numeri che raccontano come la schiscetta – termine milanese che nel tempo si è imposto a livello nazionale – non sia un’abitudine residuale, ma un fenomeno radicato. Una scelta che risponde a logiche diverse: dal risparmio rispetto ai prezzi crescenti di bar e ristoranti, al controllo sugli ingredienti, fino a motivazioni ambientali e salutistiche. E oggi, complice la spinta dei social, anche il contenitore del pranzo diventa elemento di stile e narrazione quotidiana.
La parola schiscetta nasce a Milano e affonda le sue radici nel dialetto: deriva dal verbo schisciare, cioè schiacciare, perché il coperchio del contenitore veniva pressato per chiuderlo bene. In origine indicava la gavetta di metallo portata dagli operai nelle fabbriche lombarde, riempita di piatti semplici e nutrienti: pasta, riso, minestroni, pane e formaggio. Era un gesto che parlava di turni lunghi, di economia domestica e di necessità: il pranzo consumato in pochi minuti, spesso in spazi angusti, dove l’idea stessa di “pausa” era relativa. Le mense aziendali erano infatti rare: solo alcune grandi industrie, come la Olivetti di Ivrea, pioniera nel pensare al benessere dei dipendenti, offrivano spazi e pasti organizzati. Per la maggioranza degli operai, invece, la schiscetta restava l’unica opzione quotidiana. Negli anni il termine si è esteso fino a diventare sinonimo di qualsiasi pasto preparato a casa e portato in ufficio o a scuola, ma ha conservato un sapore identitario che racconta la storia del lavoro in Italia.
“La 2000” alias Schiscetta di Caimi Brevetti Spa esposta permanentemente al Museo del design della Triennale, presso la Villa Reale di Monza.
Negli anni Cinquanta, la schiscetta smette di essere solo necessità e diventa anche oggetto di design. Nel 1952 Renato Caimi progetta la “2000”, pietanziera con chiusura ermetica nata dall’episodio di un vasetto di minestra rovesciato su un tram milanese: da quell’inconveniente prende forma l’idea di un contenitore sicuro e resistente, simbolo di un Paese che si avvia al boom economico.
La pietanziera entra anche nella letteratura. In Marcovaldo (1963), Calvino dedica un intero episodio al pranzo del protagonista, seduto su una panchina cittadina con il suo recipiente di latta. «Le gioie di quel recipiente tondo e piatto chiamato “pietanziera” consistono innanzitutto nell’essere svitabile», scrive. Dentro ci sono salamini e lenticchie, uova sode e barbabietole, polenta e stoccafisso: poco cibo, pigiato nello spazio rotondo, ma capace di restituire l’illusione di abbondanza. Il coperchio che diventa piatto, le prime forchettate dei cibi ormai freddi, e nella malinconia del pranzo all’aperto Marcovaldo ritrova i sapori di casa. È un ritratto che restituisce la pietanziera come metafora di un’Italia che lavora e costruisce i propri piccoli rituali giornalieri di vita urbana.
Negli ultimi vent’anni la schiscetta ha cambiato pelle. Non è più soltanto simbolo di risparmio o necessità, ma anche strumento di autoaffermazione, cura e perfino estetica. L’arrivo dei social network ha trasformato il pranzo portato da casa in contenuto da condividere: su Instagram l’hashtag #schiscetta raccoglie migliaia di post, affiancato da tag come #lunchboxitalia o #pausapranzo, e pagine come @schiscettebrutte raccontano con ironia la pausa pranzo nella sua versione meno patinata, fatta di riso scotto e contenitori sbilenchi. È il contraltare necessario alla perfezione delle foto patinate.
Su TikTok che il fenomeno è esploso, contaminandosi con trend globali: spopolano gli “adult Lunchables”, reinterpretazione adulta dei celebri snack pack americani; lunch box suddivisi in scomparti con pasti bilanciati, veloci da assemblare e visivamente accattivanti, diventati virali grazie alla loro estetica ordinata e “instagrammabile”. Non mancano le influenze asiatiche: le bento box giapponesi, con riso, verdure e proteine disposte in modo armonico, sono ormai un riferimento visivo costante, emblema di una cura quasi artistica nella disposizione del cibo.
In parallelo, trionfa la creatività anti-spreco: il Kitchen Sink Sandwich, un panino nato per riciclare gli avanzi del frigorifero mescolando ingredienti disparati, ha superato i 4 milioni di visualizzazioni diventando simbolo di sostenibilità in chiave pop. La schiscetta, da pranzo operaio, è diventata oggetto performativo: un pranzo che deve essere pratico e nutriente, certo, ma anche fotogenico.
Più di un semplice contenitore: la schiscetta intreccia economia, identità e stile di vita. In tempi di inflazione, resta una scelta di risparmio – secondo Federconsumatori può ridurre la spesa della pausa pranzo fino al 74% – ma non è solo necessità. Dentro un tupperware c’è la pasta al tonno riscaldata al microonde come l’insalata di quinoa con avocado: mondi diversi che raccontano tradizioni, mode alimentari e biografie personali. Al contenuto si lega il valore sociale: nelle fabbriche come oggi negli uffici diventa momento di condivisione e online alimenta community di confronto e creatività. Da simbolo operaio a trend globale, la schiscetta ha saputo adattarsi senza perdere il suo senso originario: un pranzo preparato a casa e portato via, capace di raccontare in piccolo come cambiano il lavoro, la città e anche i nostri desideri.
Foto cover di Selina Thomas
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