Stanley Tucci è tornato in Italia. Ma non è più (solo) quella delle nonne che impastano e dei borghi da sfogliare su Instagram. È l’Italia delle vertical farm, dei grandi imprenditori e dei ristoratori contemporanei che scelgono il bilanciamento vita-lavoro al posto del business sfrenato. In questa nuova serie — ben girata, ben ritmata, esteticamente impeccabile — il cibo diventa leva per raccontare una nazione che innova. Ma forse il racconto resta incollato a un altro tipo di cliché.
Il Tucci 2.0 non si accontenta della pasta fatta in casa. Cerca le storie dietro i prodotti, le filiere, i gesti visionari. Va nei laboratori, nei macelli, nelle miniere, nei caseifici. Parla di industria, di impatto ambientale, di integrazione, perfino di diritti civili. Eppure, anche qui, tutto resta spesso ovattato. Gli spazi sono sempre belli, le persone sempre gentili, i piatti sempre riusciti. Gli “eroi del quotidiano” sono selezionati con lo stesso occhio con cui si seleziona una scenografia. I posti veramente popolari, scomodi o contraddittori — quelli dove la complessità dell’Italia esplode — non trovano quasi mai spazio. Manca il disordine, manca l’imprevisto.
Stanley Tucci in Sicily during production of National Geographic’s “Tucci in Italy” series. (National Geographic/Matt Holyoak)
E poi c’è lui, Stanley. Che assaggia ogni piatto con lo stupore del primo giorno. Che sussurra un “unbelievable” anche davanti a un’insalata. Che riesce a trovare “incredibile” perfino un risotto all’Autogrill. È il suo modo di essere — garbato, entusiasta, sempre riconoscente — e fa parte del suo fascino. Ci sarà mai stato un piatto che non l’abbia convinto? Un racconto che gli abbia lasciato un dubbio? Si sarà mai chiesto se, dietro l’Italia che celebra, c’è anche quella dei centri storici svenduti, dei ristoranti per turisti, di chi cucina senza più sapere per chi? Non possiamo saperlo.
A lungo andare però, questo entusiasmo senza sbavature finisce per schiacciare ogni ambiguità del racconto. Non c’è spazio per l’errore, né per il tiepido. Solo eccellenze, solo certezze. E un’Italia dove tutto è buono, tutto è commovente, tutto è “amazing”… semplicemente non esiste. “Tucci in Italy” alza il tiro rispetto alla prima serie, ma resta sempre dentro i confini del racconto che piace. Un racconto che preferisce muoversi solo tra eccellenze, visioni, storie da celebrare. Più che un’indagine sull’Italia del cibo, sembra una collezione di casi studio per un convegno sul made in Italy. Per chi cerca un’Italia vera, imperfetta, anche contraddittoria, il viaggio è altrove.
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