Caccia e selvaggina, alla ricerca di una filiera “sana”. La storia (e i sapori) di Sant’Uberto

11 Ott 2022, 15:56 | a cura di
Quanta della nostra cultura gastronomica è legata alla cacciagione? Tantissima. E quanta selvaggina autorizzata si trova nei ristoranti? Pochissima. Questo il gap che Sant’Uberto punta a colmare.

Caccia, selvaggina e filiera del selvatico

Lentamente, ma qualcosa si muove. Parliamo della caccia, della selvaggina, della filiera del selvatico (e ve ne avevamo già parlato nel mensile Gambero Rosso N.349 febbraio 2021). È sempre dall’Emilia Romagna che arrivano le notizie più avanzate, ovvero quelle che pongono piano piano delle piccole pietre nella costruzione di una filiera che al momento in Italia ipocritamente non esiste. Parliamo di Sant’Uberto, storica azienda faunistico-venatoria di Monterenzio (BO), che ha costruito – unica in Italia – un macello dedicato esclusivamente alla carne selvatica “sparata” e che ha iniziato addirittura ad esportarla in Austria. «Che sarebbe un po’ come la classica esportazione dei vasi a Samo o dei ghiaccioli al Polo!», commenta l’editore Michele Milani, appassionato di caccia e “fiancheggiatore” dell’azienda nella comunicazione.

La cacciagione? Una ipocrisia molto italiana

La cacciagione, in Italia, sostanzialmente non esiste. Questa è l’ipocrisia di un Paese dove in realtà grande parte della tradizione gastronomica e della storia della sua cultura materiale si basa appunto sulla caccia, unita magari alla raccolta di erbe selvatiche e di funghi. La cacciagione, però, o la si importa (e bisogna pure stare attenti, perché alcuni animali in Italia possono essere mangiati ma non commerciati!) o, nei ristoranti, la utilizza “al nero”. Purtroppo funziona così. Perché? Bah… Non c’è un motivo – un impedimento – vero alla costruzione di una filiera controllata e regolamentata. In realtà, prima di Sant’Uberto l’unico macello di cacciagione regolare era la Macelleria Zivieri di Zola Predosa (sempre alle porte di Bologna e sempre in Emilia Romagna), che aveva uno spazio dedicato anche alla caccia oltre alla lavorazione standard delle carni da animali allevati. La particolarità di Sant’Uberto è essersi dedicato esclusivamente alla cacciagione e di aver costruito una filiera importante con numeri che cominciano anche a essere interessanti e non solo per pochi intimi appassionati. «Dal 2007 in Emilia Romagna c’è la possibilità per il cacciatore di vendere la sua cacciagione attraverso u centro autorizzato – spiega Michele – e fino a 5.000 euro l’anno non serve neppure fattura». Nel centro di Sant’Uberto, poi, si fano le analisi di routine per garantire la salubrità delle carni che vengono lavorate, porzionate e preparate per la conservazione che può essere sottovuoto o più spesso tramite surgelazione e successiva distribuzione all’interno del ciclo del freddo. La diffusione maggiore è per la carne di cinghiale, che viene venduta anche negli scaffali della Metro per il  settore Horeca; la carne di altri ungulati invece, avviene per ora esclusivamente in maniera diretta tramite il sito dell’azienda emiliana.

Selvaggina tracciata e legata al territorio

I titolari di Sant’Uberto – Roberto Aleotti e la moglie Lucia Santini che segue direttamente il lavoro del macello e la trasformazione delle carni – ricevono solo carne tracciata e da cacciatori in regola con tutte le autorizzazioni e privilegiano in particolare le carni dai Parchi del Ducato di Parma e Piacenza. La realizzazione di tutto questo è molto legata al territorio: stretta è la collaborazione con artigiani e piccole industrie di lavorazione locale in una zona dove la trasformazione alimentare è da decenni uno dei motori economici del territorio.

Alla presentazione della nuova era di Sant’Uberto, che ha iniziato a spingere molto la distribuzione anche nel mondo horeca avendo ormai messo a punto esperienza sufficiente nel settore, ha partecipato anche Gianluca Renzi, chef e patron del blasonato I Portici di Bologna: la sua tartare di capriolo ha affascinato tutti i palati dei presenti. Così come la novità della spalla cotta di cinghiale ha attirato l’attenzione di molti: in realtà a un prezzo più che accessibile, permette di avere una carne sanissima, di filiera e controllata, e dall’altissimo valore nutrizionale oltre che organolettico. Particolarmente azzeccati, poi, gli arrosticini di cinghiale e gli hamburger di capriolo: anche questi davvero interessanti sia sul fronte del sapore che su quello dell’ottimo rapporto qualità/prezzo.

Polemiche e divisioni etiche

Sulla caccia, lo sappiamo, ci si divide molto in Italia e non solo. Ci sono gli animalisti che la vorrebbero bandire, ci sono i cacciatori che invece la difendono. Di fatto però – e senza adesso andare a vedere i motivi e le polemiche legate alle responsabilità del passato – la gestione della fauna selvatica pone seri problemi sia all’attività agricola, ma anche alla tutela dell’ambiente e del paesaggio e alla possibilità di fruirne da parte dell’uomo, senza contare poi i rischi di incidenti sia automobilistici che legati a incontri ravvicinati nelle stesse città. Certo, le azioni di sterilizzazione della fauna selvatica sono una possibile soluzione a lungo termine, ma probabilmente serve anche un modello di gestione che esca dalla logica dell’emergenza (che in Italia diventa purtroppo sempre la normalità) e che permetta un equilibrio ecologico vero e continuo. Noi, sul Gambero Rosso mensile e sul sito, abbiamo spesso trattato l’argomento dal punto di vista più della cultura gastronomica che dell’etica verde, senza tralasciare però considerazioni di carattere anche politico e morale. Alla fine, uccidere una mucca o un vitello o un agnello allevati in stalla o al pascolo in cosa è diverso dall’uccidere in una battuta di caccia un animale che vive libero e ha avuto una esistenza senza particolari costrizioni? Il dibattito può vertere sull’etica dell’allevamento e del macello, sul mangiare o meno altri esseri viventi, sulla scelta del vegetarianesimo o meno (il veganesimo è ancora più particolare e contiene in sé altri elementi sia di discussione che di polemica). Intanto, però, privilegiare il consumo di carne da animali liberi e che hanno vissuto una vita dignitosa, crediamo possa essere comunque un primo step verso il superamento di pratiche davvero pessime come quelle – ad avviso di chi scrive – dell’allevamento intensivo o super intensivo. Su questo fronte le idee e le posizioni sono davvero tante e diverse.

La testimonianza dello chef

La testimonianza di uno chef come Gianluca Gorini che vive a San Pietro in Bagno (FC) in un territorio immerso nei boschi e strettamente legato alla cultura del “selvatico”, è interessante:  «Quando capita di lavorare carni di animali abbattuti in selezione posso garantirvi che la qualità è superiore, perché si tratta di una materia prima fresca, che ha subito trattamenti corretti e inoltre è una risorsa locale, del nostro territorio. Sarebbe importante colmare questa lacuna e rendere l’approvvigionamento di carne di selvaggina più facile e controllato. È anche un modo di coltivare i rapporti con il territorio, per non perdere sapori e ricette della nostra identità». Tanto che anche il comune di Bagno di Romagna – a pochi chilometri dal ristorante – si sta adoperando per costruire un macello dedicato alla cacciagione in un territorio molto ricco sia di fauna che di cacciatori.

Il no di Legambiente

Di avviso contrario, invece, Nino Morabito, responsabile fauna e benessere animale di Legambiente. «Il consumo esponenziale di risorse naturali, che porta a definire “Antropocene” il periodo attuale, è la causa prima della perdita di biodiversità e di squilibri, anche climatici e sanitari, sempre più catastrofici. Il report (2019) della Piattaforma Intergovernativa Scienza-Politica sulla Biodiversità e i Servizi Ecosistemici (IPBES) evidenzia che un milione di specie sono a rischio di scomparire definitivamente e – secondo la Lista Rossa delle Specie Minacciate dell'IUCN – il 41% di anfibi, il 25% di mammiferi, il 13% di uccelli, il 31% di squali e razze, il 33% di coralli di barriera corallina e il 27% di crostacei. In questo contesto, la drastica riduzione del consumo di carne di specie domestiche e selvatiche è l’unica scelta etica e sostenibile a livello planetario. Non è una soluzione, oggi, incentivare o promuovere l’uccisione di specie animali selvatiche per migliorare la qualità della vita di circa 8 miliardi di persone. Proporre filiere della carne selvatica, inoltre, obbligherebbe a mantenere, su terreni privati e pubblici, livelli elevati di poche specie animali (commestibili) con crescenti danni (agricoltura, incidenti stradali…) a carico di tutti e vantaggi per pochissimi».

Sta di fatto, però, che intere zone sono devastate dalla fauna selvatica: oasi naturali e parchi sono assediati da ungulati che distruggono tutto, anche altre specie animali. Forse, l’etica va bene, ma anche la concretezza dovrebbe avere un suo spazio. specialmente nell’immediato

Il biologo: risorse rinnovabili

Il biologo Paolo Molinari nel corso di un workshop sul patrimonio faunistico tenutosi a Tarvisio tre anni fa, afferma che la selvaggina è una risorsa rinnovabile - come le energie provenienti dal sole, dall’acqua e dal vento - che se ben gestita ci consente di essere usata e riusata; la caccia di selezione permette di prelevare gli animali scegliendo in base alla stagione, e questo è un beneficio sia dal punto di vista naturalistico che culinario perché le carni hanno sapori diversi in base al sesso, all’età ma anche al momento dell’anno in cui si caccia. E anche in Friuli Venezia Giulia hanno cominciato a nascere sia corsi di abilitazione per una caccia più sostenibile e rispettosa del benessere animale, sia piccoli macelli nell’intento di costruire delle piccole filiere legate alla selvaggina.

a cura di Stefano Polacchi

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