Un pane industriale ma di buona qualità. Il curioso caso di Grande Impero che sforna 60mila chili di pagnotte al giorno

26 Feb 2024, 17:57 | a cura di
È un nome conosciuto nel mondo del pane, specie nell'Italia centrale. Le pagnotte, riconoscibili dal caratteristico bollino di carta, rappresentano un prodotto organoletticamente buono nonostante una produzione che tocca numeri importanti. E il nome, assicura la dirigenza, non ha nessun legame con Mussolini

C'è da dire subito una cosa: il pane a marchio Grande Impero non è affatto male. Considerando “l'impero” di supermercati che rifornisce, lo standard qualitativo dei prodotti a marchio è elevato. Difficilmente una pagnotta risulta mal lievitata. E qualche profumo, la mollica e la crosta, lo sprigionano. Insomma, diamo a Cesare quel che è di Cesare. A proposito di Cesare, sgombriamo subito il campo da una supposizione (la nostra): «Il nome non ha alcun legame con il sogno di Mussolini», assicura l'attuale amministratore delegato dell'azienda Antonella Rizzato che nel 2019 ha dovuto fare i conti con una situazione alquanto spiacevole, per usare un eufemismo. Quell'anno un lavoratore dell'azienda, insieme a cinque colleghi, durante una telefonata registrata ha rivendicato una paga più giusta e una corretta applicazione delle regole contrattuali, tirando in ballo il sindacato.

La reazione dell'allora ad Stefano Fancello (ex marito di Rizzato) non è passata inosservata, tanto da essere stata ritenuta dal giudice del tribunale di Velletri, dove i lavoratori hanno consegnato la registrazione, discriminatoria, aggravata da minacce e intimidazioni ai lavoratori. Come se non bastasse, dall’audio erano emerse anche le simpatie politiche di Fancello, lui stesso si era definito “fascista”. La sentenza del tribunale di Velletri è stata poi confermata in appello dal Tribunale di Roma: la Strong srl, nome dell'azienda alla quale oggi fa capo uno solo dei cinque siti produttivi, è stata condannata a risarcire 3.750 euro ai lavoratori che hanno denunciato i fatti e 5.500 euro alla Flai Cgil.

Il nome equivoco di Grande Impero

«Stefano ha pagato, è stato rimosso dal ruolo, l'azienda ha preso le distanze dalle sue parole bruttissime e i lavoratori hanno ritirato la querela. Tra l'altro l'azienda non è mai stata condannata per non aver rispettato le regole contrattuali. Da noi lavorano persone provenienti da 27 paesi diversi, facciamo volontariato e finora non lo abbiamo mai dichiarato, doniamo il pane a diciotto associazioni cattoliche. Come si fa a pensare, nel 2024, che “Grande Impero” abbia un qualche legame con il fascismo? Il nome è nato intorno al 2009 sotto un vigneto, eravamo con un gruppo di amici, tra cui un ex giornalista del Messaggero che ci ha suggerito di dare un nome altisonante al nostro pane, perché non associarlo all'Impero romano? Così abbiamo fatto, anche perché fin da subito l'obiettivo era quello di espanderci fuori dal Lazio».

Oggi l'azienda, nata sul finire degli anni Ottanta a Roma, conta 130 dipendenti, rifornisce 2mila punti vendita, perlopiù supermercati, produce 60mila chili di pane al giorno e ha chiuso il 2023 con 38milioni e mezzo di fatturato. Numeri importanti che fanno il paio con una qualità abbastanza elevata, tanto da aver destato la nostra curiosità (sempre mossa da un approccio quanto più possibile laico).

Cosa serve per fare grandi numeri

Come si riesce a mantenere un elevato standard di qualità con dei numeri così importanti? «Abbiamo un know how tramandato da generazioni, il nonno di mia figlia faceva il pane, e la nostra pasta madre è ultradecennale; nella biblioteca internazionale delle pasti madri a Bruxelles c'è pure lei. Siamo anche la prima azienda di pane di pasta madre a lievitazione naturale riconosciuta e certificata da due università, quella di Bari Aldo Moro e Libera Università di Bolzano. Il pane, poi, viene “formato” a mano dai fornai e adagiato in casse di legno prima della cottura in forni a pietra. Dopodiché abbiamo investito molto in macchinari ad altissima tecnologia ma con caratteristiche che rispecchiano usanze antiche, come per esempio l'uso dei mattoni oppure la riproduzione di habitat adatti alla pasta madre, che nell'industria canonica non si trovano per ovvi motivi».

Altro fattore vincente è l'aver attivato cinque siti produttivi - tre nella zona di Roma, uno in Abruzzo e un altro a Sansepolcro in Toscana – con una distribuzione, affidata a una cooperativa esterna, capillare che permette consegne fatte quotidianamente.

Il futuro nero delle farine italiane

Altra caratteristica - ancora per poco? - le farine utilizzate sono dalla 0 in giù e italiane. «Facciamo fatica a usare grani e farine italiane, ma per ora ci riusciamo. È risaputo che al momento non sia il grano migliore e a causa delle politiche europee sarà sempre più costoso. Considerate che noi non riusciamo a soddisfare le richieste del mercato e come noi moltissimi altri, ma agli agricoltori italiani non converrà più coltivare grani autoctoni. Un po' come sta succedendo con l'olio di semi di girasole che arriva dall'Ucraina senza dazi: non credo che a settembre qualcuno in Europa, inclusi noi, pianterà semi di girasole. Ci auguriamo si prendano serie posizioni, affinché sia le piccole realtà che le grandi, come la nostra, possano mantenere la libertà di acquistare grani italiani a dei prezzi accessibili, senza correre il rischio di andare fuori mercato. Ecco perché appoggio le rimostranze degli agricoltori contro la Pac, è giusto che prendano i trattori e si facciano sentire. Dovremmo tutti unirci, tutta la filiera agroalimentare senza estremizzazioni, ma mancano le associazioni di categoria. Perché i panificatori, da quello piccolo sotto casa alle realtà più strutturate non sono scesi in piazza?».

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