C’è un dolce sulle rive del Lago di Como che racchiude in sé secoli di memoria contadina, povertà nobile e sapori dimenticati: si chiama Miascia, ma è conosciuta anche come meascia o turta di paisan. Non ha l’eleganza delle torte moderne, non sfoggia glasse lucide o farciture complesse. Eppure, nel suo impasto compatto e frugale, batte il cuore della cucina lariana più autentica.
La Miascia appartiene alla grande famiglia dei “dolci poveri”, quelli nati per necessità e genialmente ricavati dagli avanzi. Ingredienti semplici e accessibili — pane raffermo, frutta secca o fresca, latte, uova — venivano mescolati con cura e pazienza, fino a creare una torta nutriente, energetica e sorprendentemente ricca di sfumature. In passato non era un dessert, ma spesso sostituiva il pasto o si offriva agli ospiti durante festività e ricorrenze.
Questo dolce-pasto deriva probabilmente da un’antica matrice di ricette, come il migliaccio, già descritto nel Quattrocento da Maestro Martino da Como, celebre cuoco e figura centrale della cucina medievale. Il migliaccio, parente lontano della Miascia, era preparato con cacio fresco, zucchero e acqua di rose, e cotto nello stesso forno usato per il pane: un gesto che segnala l’economia e la sobrietà tipiche del tempo.
La miascia (foto Paola Lovisetti per quicomo.it). In apertura la rivisitazione del bistrot Figli dei Fiori di Como
Elemento fondante della Miascia è il pane raffermo, in dialetto lecchese pan poss.
“Pan poss, vin brusch e legna verda fan l’economia d’una ca”: così recita un proverbio locale, a ricordare quanto ogni risorsa avesse valore nelle case contadine. Anche se “pan poss” poteva avere accezione negativa (indicando qualcosa di inutile o stantio), in cucina diventava una preziosa materia prima.
Un tempo il pane non era quello fragrante e leggero dei forni odierni. Veniva preparato con farine miste — di segale, miglio, mais — e cotto in grandi pezzature nei forni comunitari. Si conservava per una-due settimane nella “panadura“, l’armadio del pane (alias madia). Il raffermamento, lungi dall’essere un difetto, ne migliorava persino la digeribilità, grazie alla retrogradazione dell’amido che rallentava l’assorbimento dei carboidrati.
Un altro tratto distintivo della Miascia è l’assenza (quasi totale) di zucchero raffinato, un tempo accessibile solo ai più ricchi. Per addolcire l’impasto, si utilizzava frutta, fresca e secca: mele, pere, uva, fichi secchi, noci, albicocche, castagne. Una dolcezza naturale, nutritiva, capace di regalare energia e sali minerali. Oggi, in alcune versioni moderne, si aggiungono spezie (come la cannella), cacao o un goccio di grappa o vino rosso, ma l’anima della ricetta resta fedele all’essenzialità.
La Miascia tradizionale prevede l’uso del pane ammollato nel latte, ma non mancano varianti locali che sostituiscono il pane con un impasto a base di farina bianca e farina gialla: è il caso di alcune zone del Comasco e della Brianza, dove la torta assume sfumature leggermente diverse, pur rimanendo fedele allo spirito originario.
Non esiste una Miascia uguale all’altra. Ogni paese del lago — da Bellagio a Domaso, da Lezzeno a Varenna — custodisce la propria versione, tramandata oralmente e adattata agli ingredienti disponibili. Alcuni la cuociono più a lungo, rendendola quasi caramellata; altri la preferiscono più umida, quasi fondente. In certi casi viene servita tiepida, accompagnata da un vino rosso amabile o liquoroso, come uno Sforzato valtellinese o un Recioto.
Oggi, nelle sagre di paese e nei ristoranti che valorizzano le radici locali, la Miascia torna protagonista. E viene anche reinterpretata, magari con versioni al cucchiaio. È un dolce che non vuole stupire, ma raccontare. Raccontare un mondo dove nulla si sprecava, dove il cibo era nutrimento e simbolo di accoglienza, dove anche il pane duro diventava festa.
In tempi di riscoperta della cucina di recupero, la Miascia si rivela incredibilmente attuale. È sostenibile, economica, nutriente. È l’esempio perfetto di come, con poco, si possa ottenere qualcosa di buono. Ed è anche un invito a rallentare, ad apprezzare il cibo non per la sua estetica, ma per la sua storia e verità.
In fondo, gustare una fetta di Miascia significa fare un salto indietro nel tempo: tornare in una cucina di pietra, davanti a un forno tiepido, con le mani immerse in un impasto profumato di pane e frutta. È un viaggio nel cuore del Lago di Como — autentico, rustico, eppure capace di emozionare.
150 g di pane raffermo
4 dl di latte
1 cucchiaio di farina tipo 2
1 cucchiaio di farina gialla
30 g di uvetta
1 uovo
1 mela
1 pera
1 limone
1 grappolino di uva bianca
1 rametto di rosmarino
50 g di zucchero (facoltativo)
40 g di burro
1 pizzico di sale
Tritare grossolanamente il pane e ammollarlo per un’ora nel latte caldo. Ammollare l’uvetta, scolarla e asciugarla. Impastare il pane con un pizzico di sale, lo zucchero, l’uovo, la scorza di limone grattugiata, l’uvetta, i due tipi di farina, gli acini d’uva, la mela e la pera sbucciate e tagliate a dadini.
Versare l’impasto in una teglia da 24 cm rivestita con carta forno, spargervi sopra gli aghetti di rosmarino e il burro a fiocchetti e cuocere a 180° in forno per un’oretta. Va servita tiepida o fredda.
Ps. Al posto della pera e della mela si possono usare fichi, albicocche, pesche o anche castagne. E noci.
Foto cover: Bistrot Figli dei Fiori – Como
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