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Nelle nuove piazze amate dai giovani si mangia sempre: storia e ascesa delle food court

Il format che include cibo e shopping spopola tra giovani e famiglie in tutto il mondo. Le case history di Milano, Napoli e Roma

  • 24 Luglio, 2025

Scegliere cosa mangiare non è mai stato così semplice. L’ansia del dover mettere tutti d’accordo per trovare un posto in grado di sintetizzare le varie richieste, possibilmente senza stressarsi, è finito. Nell’era delle food-court il problema viene cancellato. Parliamo di conglomerati di ristoranti nazionali e internazionali, partendo solitamente da un minimo di cinque, posizionati uno a fianco all’altro ma ognuno con il proprio format per soddisfare qualsiasi esigenza del cliente. Per evitare di pestarsi i piedi a vicenda, l’offerta deve essere differenziata ma anche sinergica, così che ognuno abbia il proprio spazio. In questo modo le polemiche e i litigi tra commensali su dove e cosa mangiare si azzerano, vista la proposta numerosa e diversificata. In un certo senso, possiamo considerarli come la versione 2.0 dei mercati rionali.

Le nuove piazze amate dai giovani

Di food-court se ne vedono sempre di più, complice la domanda in netta crescita, soprattutto tra le giovani generazioni. È da loro che arriva l’impulso principale. Quasi un italiano su tre preferisce andare a mangiare in una delle 160 “nuove piazze della ristorazione” sparse lungo la penisola, una percentuale che aumenta notevolmente tra la Generazione Z, in cui 48% la preferisce come “destinazione in sé”. Il 58% di loro le frequenta più di una volta al mese, mentre tra i Millennials (i nati tra gli anni Ottanta e Duemila) si arriva al 42%. Poco di meno rispetto alla Gen Z, ma abbastanza di più rispetto alla media generale del 38%. I dati sono il risultato dell’analisi realizzata lo scorso anno da Bva Doxa, presentata in occasione della seconda edizione dell’Osservatorio Food Court di scena a novembre. Nel report emerge anche un’altra evidenza interessante: per 6 famiglie su 10 con figli a carico, è fondamentale che all’interno di un centro commerciale ci sia una food-court. È qui che si concentrano la maggior parte di questi conglomerati, che sfruttano gli spazi ampi. Oltre il 90% del totale si trova dentro un centro commerciale, un’area particolarmente favorevole visto il riciclo di persone che ci passano diverse ore.

Nasce a Toronto la prima food court

È anche la tradizione a imporlo. La prima food-court riconosciuta come tale viene fatta risalire a quella realizzata nel 1971, costruita nel centro commerciale Sherway Gardens di Toronto. Tre anni più tardi ne era sorta un’altra all’interno del Paramus Park, centro commerciale dell’omonima città del New Jersey. Da lì in poi hanno iniziato a diffondersi in tutto il mondo. Col tempo però hanno cambiato geografia, pur rispettando sempre il criterio di fondo: più banconi in un unico posto. In Indonesia ad esempio si sono evolute in food-park, visto che hanno cominciato ad aprire all’interno degli spazi verdi di Giacarta. Dietro ogni serranda alzata ci sono tendenzialmente due punti centrali: lo spazio e il numero di persone che lo calpesta. Ecco dunque che si vedono sempre più food-court nelle stazioni ferroviarie, così come negli aeroporti. O nei musei: nel 2009, Autogrill aveva inaugurato i Restaurants du Monde all’interno del Louvre. Anche scuole e università hanno iniziato a introdurle all’interno delle mense.

L’evoluzione: da food court a food hall

La mutazione ha riguardato anche il nome. Da food-court si è passati a food-hall, ma è bene precisare che parliamo di due realtà differenti sebbene il concetto con cui nascono sia simile. Come scritto, a caratterizzare le prime sono per lo più le grandi catene di fast-food (in Italia, sempre secondo il report di Bva Doxa, la classifica dei primi cinque posti vede Billy Tacos, I Love Poke, La Piadineria, McDonald’s e Old Wild West), che vengono aperte in posti molto frequentati, come centri commerciali o cinema multisala. Le seconde invece preferiscono ospitare ristoranti indipendenti e artigianali, possibilmente diversificati per area geografica. Sorgono in strutture riqualificate e adibite ad hoc, come vecchi palazzi storici che vengono ristrutturati o edifici abbandonati a cui viene concessa una seconda vita: tra i più noti troviamo Chelsea Market a New York e il Quincy Market di Boston, solo per citarne un paio. Le food-hall sono inoltre pensate anche come un supermercato di qualità dove fare la spesa. Insomma, in queste aree l’atto del mangiare è solo una parte. La differenza quindi sta sia nell’offerta quanto nel modo in cui viene confezionata la proposta: mentre le food-court sono un punto di attrazione e di relax per chi è preso da altro – che sia lo shopping o un film – le food-hall possono presentare anche degli esercizi commerciali purché allineati con la loro visione – ce lo vedreste bene un negozio di vendita al dettaglio accanto a uno stellato?

Il boom delle food hall dopo la pandemia

Sarà la modernità che incarnano nella loro proposta, o la voglia di socialità esplosa dopo la pandemia (lo smart-working è stato un incentivo importante, così come la necessità di mangiare fuori dalle mura di casa), sta di fatto che nel corso del tempo le food-hall sono diventate un punto di riferimento importante. Secondo una delle ultime mappature, in Europa se ne trovano oltre cento di cui gran parte nel Regno Unito e in Italia. Il motivo della crescita in questi due paesi è dovuto in parte al fatto che Londra è da sempre una città in prima linea quando si parla di sperimentazione. Qui troviamo, solo per citarne alcuni, Dinerama, nel quartiere Shoreditch dell’East End, The Kitchens at old Spitalfields Market e Pop Brixton. Per il caso italiano sono la qualità e la prossimità dei prodotti a spingere le persone a provarle. Un esempio è Eataly, aperta nel 2007 dentro l’ex fabbrica della Carpano a Torino. Da segnalare ci sono anche Degustazione a Fano e Officine Italia a Mestre.

Le novità tra Europa e Stati Uniti

Tra le realtà ormai affermate in Europa troviamo Time Out Market a Lisbona, Mathallen a Oslo, El Nacional a Barcellona, la Platea a Madrid, Copenaghen Street Food PapirØen e Torvehallerne a Copenaghen, Foodhallen ad Amsterdam e, per tornare in Gran Bretagna, Market House ad Altrincham.

Il fenomeno era già molto forte anche oltreoceano. È più di un decennio che l’America vede aprire food-hall, nonostante da quelle parti il termine venga utilizzato anche per descrivere le food-court. Nell’autunno di due anni fa se ne contavano 364, ma entro quell’anno ne sarebbero state aperte altre 120. Sono presenti non solo nelle grandi città costiere, con New York che rimane uno dei centri principali, ma anche nelle aree considerate più periferiche e rurali. Anche qui il ruolo del Covid è stato centrale per l’espansione delle food-hall, dato che ha portato le persone ad abbandonare i centri urbani per prediligere gli spazi aperti della campagna. Come a Omaha, nel Nebraska, punto di incontro tra la cucina nepalese e quella siriana; o a Grapevine, in Texas, dove la cultura statunitense si mischia con quella sudamericana; o a Selma, nella Carolina del Nord, un ottimo posto dove mangiare indiano o peruviano.

L’esperienza italiana: Milano in pole 

In Italia le food-court sono un esperimento già di successo. Lo dimostra Sidewalk, a Milano, ormai padrona di Via Bonvesin de la Riva. Un progetto che ha al suo nucleo lo street food rappresentato dai vari posti che popolano il marciapiede: Katsusanderia, Nudo Artisan Coffee, Totost, Mr Dumpling e Chuck’s. Tutto si svolge in un ambiente estremamente rilassato, a cui contribuiscono eventi e pop-up che di volta in volta vengono organizzati.

Il salotto al femminile di Napoli

Altri due casi meno noti, ma molto interessanti, arrivano dalle principali città del centro e sud Italia. A Napoli – via Filippo Cifariello in pieno Vomero – c’è una food-hall a cielo aperto. Chiamatela come volete, perché una cosa simile è difficile anche da etichettare. Angela Gargiulo, ex ceramista, ha riunito solo donne, inclusa sua sorella, per dar vita a una serie di locali che offrono dalla colazione alla cena: al civico 7b si trova Angelina Caffè, al 14 c’è Buatta, “Trattoria di conversazione”; al civico 7 la Champagneria Popolare; infine, al numero 2, il cocktail bar Cordiale gestito dal compagno di Angela, unico oste uomo in tutta la via. La singolarità di questi posti – legata al fatto che dietro ci sono sempre gli stessi titolari – sta nella possibilità di ordinare un piatto dal menù da Buatta e mangiarlo davanti a un bicchiere alla Champagneria.

E a Roma Bibo nasce da un’app

Esperienza simile si può provarla qualche centinaio di chilometri più a nord. A Roma infatti c’è un’altra apertura interessante: si chiama Bibo e, forse, a qualcuno potrebbe già dire qualcosa. Nata come app su cui ordinare e ricevere da bere entro venti minuti, negli anni ha deciso di evolversi. O meglio, di rinascere sotto altre vesti. Ora Bibo ha la sua sede fisica, non solo da asporto. Si trova in Via Bellinzona, nel quartiere Trieste della capitale, davanti a quelli che un tempo erano piccoli negozi della Galleria Fendi: all’apparenza può essere scambiata per una “semplice” enoteca che vende (per lo più) vino naturale esposto in bella mostra lungo un’intera parete. Al suo interno, però, si può ordinare cibo da quattro posti differenti: Panizzo, Greet, Squares e, anche qui, lo smash burger di Chuck’s. È il primo e al momento unico punto aperto in città. Il progetto è iniziato alla fine dello scorso anno, per cui è lecito attendersi evoluzioni in corso d’opera, a iniziare da chi ci sarà in cucina. Immutabile invece l’obiettivo che si è prefissato Bibo: dare a Roma la food-court che le mancava.

Anticonformismo e anomalia

Parlare delle food-court o delle food-hall come una novità sarebbe un errore dato che, come scritto, la prima apertura risale a qualche decennio fa. Ma la loro diffusione nell’ultimo periodo rimane una rottura con i tempi moderni, dove prevalgono l’individualismo e il protezionismo. Anche ovviamente dei beni commerciali, e quindi del cibo. Di fatto, sono un’anomalia nel sistema. In questi posti è vero l’esatto opposto: si condivide, ci si mischia e si ritorna a una delle funzioni principali del mangiare. Quella dello stare insieme.

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