Gerusalemme è una città incredibile. Crocevia di religioni, culture, cibi. Le donne con i cesti di verdura fresca riempiono le stradine della old city protetta com’è dalle mura costruite dal sultano turco Solimano il Magnifico, il suono dei carretti del pane ka’ak dà ritmo al tempo, i richiami del muezzin e delle campane sono una certezza quotidiana. Ma sono gli odori a caratterizzare più di tutto la città: pane taboon appena sformato, spezie macinate, tè alla menta, frutta matura. È qui che si incrociano culture secolari: musulmana, ebraica, cristiana e armena. La città è anche il simbolo della divisione di un paese perennemente in guerra tra israeliani e palestinesi. Quello che sta succedendo a Gaza non lascia indifferenti, la privazione di beni alimentari e sanitari è inaccettabile, ma non spetta a noi dare ragioni a l’una o all’altra parte. Qui vogliamo parlare di un fenomeno che negli ultimi 15 anni si è consumato nelle librerie del mondo anglosassone: un proliferare di ricettari in lingua inglese – molti dei quali firmati da donne, altre volte da chef e giornalisti residenti a Londra – racconta l’ambizione di un popolo, e dei suoi scrittori e cuochi, di rivendicare la paternità di alcune ricette che oggi per comodità (ed erroneamente?) vengono definite “mediorientali” o addirittura israeliane. Quella palestinese è una gastronomia solida e molto antica, nel tempo è stata in grado di permeare anche le altre cucine limitrofe. Libri che parlano anche e soprattutto di politica, storie personali, tragedie quotidiane e di un conflitto lunghissimo.
Ma non esiste una sola cucina palestinese. Questa varia come la geografia di Israele, complicata e storicamente contestata: dalle montagne della Galilea alle valli del sud, dalla costa di Giaffa fino alla Cisgiordania. È sparsa in tutto il mondo, prestata ad altre tradizioni, mescolata ad altre cucine. Un semplice gesto più di tutti ne definisce l’essenza: tighmees, intingere, uno dei metodi più comuni per mangiare nel mondo arabo. Ma è molto di più che un immergere un pezzo di pane nell’hummus (qui un po’ di storia e controversie relative al piatto): è uno stile di vita. Il pane infatti non è un companatico, ma diventa un utensile per raccogliere tutto, dalle salse alle insalate, dagli stufati alle zuppe.
Sami Tamimi aveva 17 anni quando lasciò la casa di famiglia nella città vecchia di Gerusalemme Est. Era gay e sapeva che suo padre, musulmano, avrebbe fatto fatica ad accettarlo. Non poteva parlarne con nessuno, e per questo si sentiva arrabbiato. La vita lo ha portato altrove, e oggi è un importante chef palestinese (qui la nostra intervista). Tamimi ha lavorato a Gerusalemme Ovest e a Tel Aviv prima di trasferirsi a Londra nel 1997, dove è stato capo chef presso la gastronomia Baker & Spice. Qui ha incontrato Yotam Ottolenghi, un israeliano cresciuto anche lui a Gerusalemme. Oggi sono soci di diversi ristoranti, hanno firmato insieme il mitico Jerusalem, una pubblicazione rivoluzionaria date le origini dei due. Falastin – scritto con Tara Wigley – è il secondo libro di cucina di Tamini. Un testo ormai iconico, pieno di storie e belle fotografie (di Jenny Zarins). Una guida nella cultura, nelle regioni e soprattutto nella cucina palestinese.
Boustany è invece il primo libro da solista di Tamimi, in uscita il 19 giugno 2025. Il titolo, che in arabo significa “il mio giardino”, è un omaggio alla cucina vegetale della Palestina, con oltre 100 ricette vegetariane e vegane ispirate ai sapori dell’infanzia dell’autore. «I miei nonni materni, Hasan e Khanum, avevano una bellissima casa a due piani a Wadi Al Tufah, una zona tranquilla della città di Hebron, nella parte meridionale della Cisgiordania», racconta nel libro che abbiamo visionato in anteprima. «La loro casa era circondata da un ampio boustan – un giardino, uno spazio rigoglioso e vitale pieno di frutta e verdura, che mio nonno curava meticolosamente tutto l’anno». Le ricette sono un insieme di piatti tradizionali, come le polpette di bulgur kubbeh, la musakhan (pollo arrosto e olive), il maqloubeh (il riso rovesciato), l’insalata fattoush e la mujaddara (lenticchie e grano), ma anche rivisitazioni che non tradiscono l’origine dei piatti. Il libro si divide per portare, ma con riferimenti diversi a quelli utilizzati solitamente in Italia. Quindi si parte con sott’oli, condimenti, mix di spezie, si prosegue con colazione e brunch, piccoli piatti e spuntini, insalate e zuppe, idee interessanti per le cene dei fiorni feriali, occasioni speciali e pasti con piatti da condividere. Un bel capitolo è dedicato al pane.
Che cos’è la cucina palestinese? La risposta è complicata. A Gaza dominano pesce e spezie; in Cisgiordania, carne, pane piatto e yogurt fermentato. Tahini, za’atar e shatta, un condimento a base di peperoncini rossi o verdi, sono onnipresenti. Un libro ha provato più di altri a rispondere a questa domanda: Zaitoun, una finestra sul cibo in un luogo di conflitto, che inizia trasportando il lettore nelle stanze degli interrogatori dell’aeroporto di Tel Aviv, dove Yasmin Khan, britannica di origini iraniano-pakistane e autrice del volume, è stata interrogata per diverse ore dopo il suo arrivo in Israele. Il suo viaggio inizia con i mezze, piccoli piatti, l’idea più vicina ai nostri antipasti, spesso a base vegetale, in questo caso tipici della Galilea; include tre ricette di hummus, la shakshuka (uova e pomodoro, ricetta rivendicata anche da Marocco e Israele), diverse focacce e un’insalata che abbina l’halloumi ad arance, datteri e semi di melograno. Fantastica. Dalla Cisgiordania, Khan porta gli stufati, pani e piatti di carne tipici della cucina beduina. La cucina di Gaza, che Khan non ha potuto visitare a causa del blocco che la separa dal resto della Palestina, è vivace, con aneto fresco, peperoncini verdi e aglio. Ma nonostante la sua vivacità, il cibo di Gaza è a rischio di estinzione: il blocco e la guerra ha fatto sprofondare la regione nella povertà alimentare e sta sradicando quella che un tempo era una fiorente industria della pesca.
Nata da genitori provenienti da due parti molto diverse del paese. Madre musulmana palestinese di Jaljulya, un villaggio rurale nel centro del paese famoso per i suoi frutteti e la cucina generosa; padre cristiano palestinese di Rameh, un villaggio montano nel nord, noto per i suoi uliveti e l’olio d’oliva. Reem Kassis, brillante scrittrice, è cresciuta a Gerusalemme. In una società in cui il matrimonio era ancora considerato una delle più grandi conquiste di una donna, è riuscita a intraprendere un percorso diverso, emancipandosi rispetto a una società conservatrice che relegava le donne ai doveri familiari, cucina inclusa. «Partii per gli Stati Uniti – racconta Kassis – promettendo a me stessa che, a differenza delle grandi donne della mia famiglia, non sarei mai tornata in cucina». Percorre chilometri per sfuggire a ciò che credeva fosse il suo destino, solo per rendersi conto che, forse, era proprio lì – nella cucina, tra le spezie e i sapori della sua infanzia – che avrebbe trovato la sua voce. Non come atto di sottomissione, ma come atto di forza. Infatti, oggi Kassis è una delle voce più autorevoli riguardo alla cucina palestinese. Con il suo primo libro – The Palestinian Table – ha aperto un nuovo dibattito nazionale sia sulla cucina che sull’appropriazione delle sue ricette. Parola del New York Times.
Altri due testi, divenuti ormai dei classici della cucina palestinese, sono stati firmati dalla chef trapiantata a Londra, Joudie Kalla. Palestine on a plate e Baladi sono tra i primi volumi a mettere insieme le tradizioni di un popolo e, soprattutto a rivendicare che la Palestina è un luogo reale, così come la sua cucina. Entrambi sono accessibili, molte dei piatti presentati provengono da ricette di famiglia, sono libri di cucina pensati per essere usati in casa.
Pochi libri di cucina si concentrano sulla vita di chi mangia come il piccolo capolavoro di Laila El-Haddad e Maggie Schmitt, rispettivamente giornalista e scrittrice. Molte delle storie personali raccontate in The Gaza Kitchen sono commoventi, altre strazianti, ma tutte parlano delle sfide quotidiane che affronta chi vive a Gaza. Nell’estate del 2010, le due autrici hanno viaggiato attraverso la Striscia per raccogliere le ricette e scattare le splendide fotografie presenti nel libro. Ma c’è di più: queste pagine hanno avuto il merito di aver raccontato gli aspetti sociali più problematici dell’area: carenza d’acqua, razionamento alimentare, interruzioni di corrente e vincoli politici (limitazioni alla circolazione e l’uso del suolo). Le ricette sono suddivise in undici sezioni, in base agli ingredienti o alla funzione, e ogni sezione contiene in media circa dieci ricette. Queste sono intervallate dalle storie personali degli uomini e delle donne che vivono lì. E per dirla con Anthony Bourdain: «Questo libro diventa sempre più essenziale ogni giorno che passa. Un classico della cucina mondiale».
Dicevamo che Londra è un po’ l’epicentro di questo movimento letterario. Molti degli autori infatti vivono nella megalopoli. È il caso di Fadi Kattan. Chef, ristoratore, albergatore e autore franco-palestinese, è nato e cresciuto a Betlemme, nella Cisgiordania controllata da Israele. Ha aperto Fawda, il suo ristorante, nel 2015, a cui si è aggiunto Akub, a Londra, all’inizio del 2023. Ha iniziato a lavorare al suo libro di cucina molto prima di aprire quest’ultimo, e non aveva di certo previsto che lo avrebbe lanciato dopo il 7 ottobre, giorno degli attacchi di Hamas. I contenuti sono organizzati per stagione, le fotografie di Elias Halabi mostrano alcuni paesaggi naturali nei territori “occupati” e diversi ritratti, ma ci sono anche gli scritti di agricoltori, fornitori e cuochi, ognuno parte integrante della rete gastronomica di Kattan. Tante le ricette, una fra tutte merita: la melanzana con crema di arachidi e melograno, servita anche nel ristorante inglese.
Eccoci all’ultimo titolo, in questo caso pubblicato in italiano. Un viaggio tra strade, pentole e fornelli dal sud al nord della Palestina, partendo da Hebron e poi Betlemme, Ramallah, Gerusalemme, fino a Gerico, Nablus e Jenin. Anche in questo caso si tratta di reportage dalle terre dilaniate. Anno 2013, Silvia Chiarantini gira per il paese tra un checkpoint e l’altro. Parte da Hebron, antica città palestinese, dove si preparano i fantastici dolcetti di gelatina alla rosa. Passa per Betlemme, vede un pezzo del muro che spacca il paese, in cui mentre si sorseggia il tipico tè alla menta si intrecciano i racconti sulle conseguenze della legge israeliana che ha nazionalizzato i possedimenti palestinesi. Gerusalemme, il suo pane e i suoi mercati, a cui i palestinesi sono legati visceralmente. Ramallah dove si beve il caffè al cardamomo. Il viaggio si ferma a Gaza: nel 2013 non era possibile entrare, e allora Chiarantini si fa aiutare da una giovane ragazza, Majd, conosciuta in un precedente viaggio che le invia per email le ricette della Striscia. Un libro inaspettatamente colorato che dà speranza per un futuro diverso. Molto diverso.
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