L'intervista

"La nonna è un'emozione, non una ricetta". Parla Mauro Uliassi, lo chef che studia la tradizione in Lab(oratorio)

Mauro Uliassi, lo chef che più gioca con tradizione, territorio e avanguardia, non ha dubbi: "Il mito della nonna è un'emozione, non un ricettario da replicare"

  • 15 Giugno, 2025

Mauro Uliassi ha 67 anni, tre stelle e tre forchette nel suo ristorante omonimo a Senigallia e se si chiede ai suoi colleghi qual è il loro cuoco italiano preferito sei su dieci indicano lui. Parliamo con lui nel suo locale, lui in piedi come un soldatino in servizio.

Mauro e Catia Uliassi nel ristorante di Senigallia sul mare

Intervista a Mauro Uliassi: avanguardia e storia

Con chef Uliassi partiamo da una parola a lui cara: avanguardia. Che cos’è? «Avanguardia è guardare sempre oltre quello che è la propria verità, avere la capacità di farlo. Ci sono momenti più propizi per farla, ce ne sono altri in cui l’avanguardia non sembra tale ma è comunque un percorso che qualcuno fa e che poi magari viene capito dopo. Prendi l’avanguardia che c’è stata in Spagna ai tempi di Ferran Adrià». Parliamone, chef… «Era legata a un momento socioculturale e storico della Spagna. La Spagna era venuta fuori dal franchismo, era sporca e povera ma si era creata un’energia pazzesca, nel 1983 – ricorda Uliassi – ero a Barcellona e ricordo come fossero tutti fuori di testa, tutti fatti di cocaina, molto gasati. E nel giro di quattro cinque anni questa euforia si trasformò in business. Nell’architettura c’erano Bohigas e Calatrava, nel cinema Almodovar, c’erano musicisti: ma prima chi conosceva un solo musicista spagnolo? E nella cucina c’era Adrià, che se fosse cresciuto nella Spagna franchista avrebbe fatto la paella».

Dalla cucina della nonna al Lab: emozioni non ricette

In questo momento in Italia si parla molto di più di cucina della nonna che di avanguardia… Così ne parliamo con lo chef…

Una versione della Pasta alla HIlde di chef Uliassi

Cosa è per Uliassi la cucina della nonna?

Io credo molto nell’eredità familiare della cucina ma non tanto come trasmissione delle ricette quanto come trasmissione di un’idea di piacere, di cura, di attenzione. Da bambino i pranzi della domenica erano un rito e lì ho imparato che il cibo può creare attesa, desiderio, emozione. Osservare mia madre, e mia nonna quando c’era, era come assistere a un atto di amore semplice ma potente. Credo che quel tipo di emozione, quell’intimità che nasce attorno a una tavola sia alla base della mia cucina ancora oggi. Non ho preso da loro una ricetta precisa, ma ho assorbito un’attitudine, un senso del gusto che affonda le radici proprio lì.

Per il resto, da cosa trae ispirazione?

Noi ogni anno chiudiamo a dicembre, poi per un mese andiamo in giro e poi dal 10 febbraio fino alla fine di marzo otto di noi si siedono attorno a un tavolo e comunicano le loro idee sul nuovo menu. Siamo convinti che il potere creativo che ha una persona non ha nulla a che vedere con il potere creativo di otto persone, che le idee si moltiplicano, ci si influenza l’uno con l’altro a creare un universo pazzesco. Pensi al pollo arrosto.

Il pollo arrosto?

Sì. Se chiedi a otto persone che hanno le origini più diverse e che sono state in giro per il mondo di pensare al pollo arrosto che ruota sullo spiedo, il pollo prenderà mille strade e non sai mai dove arriverà. Naturalmente questa energia creativa va codificata. Noi abbiamo un protocollo preciso con due elementi cardine”.

Quali sono?

Autenticità e semplicità. Semplicità perché tutto quello che creiamo deve essere facilmente realizzabile da tutti, deve avere un costo economico accessibile e gli ingredienti devono essere facilmente reperibili.

E l’autenticità?

Bisogna raccontare qualcosa che sia vero, non per sentito dire oppure perché si pensa che sia meglio e quindi si imita. Una spigola in Val d’Aosta la puoi fare, soprattutto se sei senigalliese, però non potrà avere quella profondità autentica. Lì il pesce non c’è, la gente non lo conosce, e tu non hai attorno a te quegli elementi che ti permettono di poter cucinare la spigola in modo puro, in modo netto. Non c’è niente da fare: devi cucinare la spigola se hai il profumo del mare sotto il naso.

Quindi la sua è una cucina a chilometro zero?

Niente affatto. Prendiamo Senigallia: un tempo qui era pieno di acquitrini e la cucina marchigiana della costa era fatta di lumache, di rane, di anguilla, di selvaggina, di orto. Il pesce c’era ma era una cosa parallela, erano i contadini che semmai facevano anche i pescatori. Oggi non c’è più nulla di questo, ma se io voglio raccontare la storia della mia gente devo prendere le lumache a Cherasco, le rane in Francia o in Ungheria, le anguille a Comacchio, la selvaggina da un allevamento. Quello del chilometro zero è un romanticismo da baraccone. Se accettiamo quel principio non dovremmo mangiare banane o ananas e dovremmo bere soltanto Verdicchio.

Quindi il territorio è sopravvalutato?

Quando ti vai ad approcciare al tuo lavoro devi chiederti cos’è meglio: fare finta di cucinare quello che ti offre il territorio ora che non c’è più nulla, o raccontare quello che non c’è più ma ho la cultura e la memoria per farlo?

Torniamo al Lab, il menu frutto ogni anno di questo brain storming…

Quando ci sediamo e iniziamo la nostra attività di ricerca, ci concentriamo soprattutto sul lavoro dei cinque sensi perché è con essi che riesci a memorizzare. Se tu non avessi i sensi non avresti nemmeno una memoria. E di tutti il più importante è l’olfatto: puoi non mangiare una foglia di basilico per tre anni, ma se ne senti il profumo ti ritrovi esattamente dove eri tre anni prima. I sensi sono l’hic et nunc, non ti puoi muovere da lì.

Qual è il principio che muove ogni nuovo Lab?

Il principio del desiderio. Noi non mangiamo più per la fame contadina dei nostri nonni ma per puro piacere. E il piacere si muove si altri registri che sono quelli del desiderio. Devo farti desiderare le cose oppure crearti un interesse. Se dopo quattro piatti io continuo a proporti le stesse consistenze, gli stessi profumi, tu ti stanchi e ti annoi. Invece devo fare in modo che quando finisci un piatto un po’ ti dispiaccia e ti venga la voglia di sapere che cosa arriverà dopo.

 In carta c’è il Lab ma c’è anche il Classico.

In realtà il Classico sono tutti ex Lab perché ogni anno il piatto più trasversale, che è piaciuto di più finisce all’interno del Classico. La Seppia è del 2022, il Riccio del 2022, l’Agnello del 2023, Spaghetti affumicati del 2008 e la Ricciola del 1999. E ogni anno arriva un nuovo piatto a sostituirne un altro”.

Lei ha avuto la prima stella nel 1995, ma è arrivato al vero grande successo solo negli ultimi anni. Come se lo spiega?

Sono lento.

Davvero?

Mettiamola così: sono estremamente costante. Con mia sorella Catia abbiamo fatto sempre piccoli passi e abbiamo cercato di dare un senso sia al successo sia all’insuccesso. Il successo è il participio passato del verbo succedere, una volta che lo hai fatto è finita. Gioisci per 48, ti ubriachi, poi guardi avanti. Noi fretta non ne abbiamo mai avuta, quando abbiamo aperto il ristorante nel 1990 la cosa importante era averlo pieno a pranzo e a cena, del resto non ci importava.

Ed era pieno?

Dopo otto mesi avevamo la fila fuori, eravamo gasati, la sera aprivamo il cassetto e non riuscivamo a contare i soldi che c’erano. Avremmo potuto comprarci un Porsche, un Rolex per uno e invece grazie agli insegnamenti contadini dei nostri genitori abbiamo reinvestito tutto nell’azienda.

Cosa è per lei lavorare bene?

Il bene che mi ero messo in testa all’inizio non è il bene come lo penso adesso, ma il desiderio è lo stesso. Bene per noi è cucinare bene per i nostri clienti, avere un gruppo di lavoro che sta in armonia con noi, condividere i successi con gli altri: questo crea un volano virtuoso dove le cose che tu hai desiderato piano piano succedono. Altrimenti è meglio che prendi un revolver e vai a fare una rapina.

Come è stato essere riconosciuti dalla critica?

Noi i primi anni avevamo delle pantegane grosse così perché qui vicino c’era il porto, quando tirava il vento dovevamo tenere chiuse le finestre perché ti entravano dentro la pioggia, la sabbia, ricordo ancora un cliente tedesco e il suo riporto… (ride). Non pensavamo certo alla stella, vedevamo solo orizzonti vicini e ogni volta che ne raggiungevamo uno alzavamo la testa e ne vedevamo un altro sempre vicino e piano piano magicamente e incredibilmente sono arrivate le benedizioni dall’alto dei cieli.

Davvero non pensava a entrare nel cerchio magico dell’alta ristorazione?

I primi tre stelle che ho visitato sono stati il Jamin di Joël Robuchon a Parigi e il Louis XV di Alain Ducasse a Monte-Carlo. E ho pensato: se questi sono i tre stelle noi le tre stelle non le vedremo mai. Come faccio? Investimenti miliardari, grandeur, ori, stucchi, arazzi, era quello che appariva. Però al contempo mi dicevo che quello che cucinavamo noi non era così male.

E poi, invece…

Badi, io sono felice. Ma per noi ha sempre avuto importanza la soddisfazione del cliente, solo con il tempo abbiamo capito l’importanza della critica.

Ecco, cosa pensa della critica gastronomica italiana oggi?

Un giorno Stefano Bonilli chiese a Ferran Adrià: che cosa pensa della critica? E lui disse: la critica è fantastica quando parla bene di te e parla male degli altri, sono degli stronzi quando parlano male di te e parlano bene degli altri. Ma è vero anche quello che ho sentito dire al critico d’arte Francesco Bonami in un’intervista: il critico deve fare il critico e il criticato non deve rompere i coglioni.

A dir poco chiaro. C’è un piatto nella sua carriera in cui credeva e non è stato accolto come sperava?

No, perché quando le cose non funzionano me ne disfo senza problemi. Anche perché anche una cosa può tornarti in un secondo momento, nessun lavoro è mai buttato. Ricordo un piatto pazzesco che avevamo fatto nel 2010, la cipolla croccante con un nero di ostrica al rosmarino che allora lascò perplesse diverse persone, poi lo abbiamo ripreso in diverse situazioni con esiti notevoli.

Il cuoco in questi casi deve insistere o deve ascoltare il pubblico?

Il cuoco è naturalmente presuntuoso – presume che – altrimenti non aprirebbe un ristorante. Se io non avessi avuto la presunzione di avere un palato che potesse accontentare il 95 per cento della gente sarei stato un folle o un mitomane. Un po’ di arroganza in senso positivo ce la devi avere.

Lei, sua sorella Catia…

Io e Catia semplicemente siamo il ristorante, con i cinque o sei ragazzi che sono con noi dall’inizio, uno dei quali è diventato suo marito, e che hanno potere di vita o di morte su ogni cosa.

Lei ha due figli…

Sì, Rosa è giornalista professionista e filosofa e mi aiuta nella comunicazione, dice sempre che devo stare molto attento a non dire cazzate. Filippo lavora con me, è maître con la sua compagna Elisa.

Ha mai spinto perché i suoi figli lavorassero con lei?

No. Questo è un lavoro che devi fare con grande entusiasmo. Io, quando ho aperto, qui dentro ci dormivo, era la cosa più mia che avevo. Queste cose le devi sentire.

Si sente un mentore?

Che sei un mentore devono dirtelo gli altri! Non è mai stato nelle mie ambizioni, ma se poi gli altri me lo riconoscono la cosa mi fa piacere… ma mi sorprende anche.

Certi suoi colleghi invece se ne fanno vanto. A proposito: ha colleghi amici?

I cuochi sono tutti uguali, è sempre un po’ una gara, dapprima magari cittadina, poi quando hai superato tutti quanti diventa una gara nazionale o internazionale. Ognuno alza i gomiti, si mette il coltello tra i denti e vuole arrivare primo.

Quindi niente amici, mi pare di capire…

Ma no! Io ho rapporti straordinari con molti miei colleghi. Ho la fortuna di aver fatto parte di due grandi generazioni: una, quella di Vissani, Pierangelini, Iaccarino, Pinchiorri, Marcattilii, in cui ero il più giovane. E l’altra, quella dei Bottura, degli Scabin, degli Alajmo, di Crippa, Romito, Sultano, di cui sono il più vecchio.

Si sente vecchio?

Avere avuto le tre stelle da grande mi fa sentire come Dino Zoff quando vinse i mondiali a 41 anni: mi fa sentire in gioco. Però tutte le ambizioni che potevo avere da giovane non ce le ho più. C’è una grande differenza tra prendere tre stelle a 60 anni e prenderle a 45. Quando hai 45 anni sei più aggressivo, ha più energia, il successo ti dà subito la voglia, tutti ti saltano addosso e ti propongono di fare qualcosa e siccome ti dannttoo anche parecchi soldi è difficile che tu riesca a dire di no. A 60 anni… Io faccio sport, faccio yoga, tutto quello che vuoi ma se mi guardo davanti comincia ad accorciarsi la faccenda. Non penso più che la vita sia infinita.

Ossessionato dalla forma fisica?

Ma no, è che in questo lavoro è molto importante essere lucidi e forti fisicamente altrimenti, come si dice a Senigallia, il cappone mica lo mangi.

Fa anche meditazione trascendentale…

Ho cominciato nel 2014 dopo aver visto David Lynch da Fazio: parlò solo di quello e lo trovai molto coinvolgente.

Ci provai anche io anni fa, senza successo.

Ma con la meditazione uno deve insistere, se tu non molli lei non ti molla.

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