In Italia c’era una volta il bar sport. Ogni paese ne aveva uno. Un universo in miniatura fatto di chiacchiere, partite ascoltate alla radio, mani di briscola, la voce inconfondibile di Ciotti a 90° Minuto, biliardino e mitologia di paese. L’autore Stefano Benni ne ha fatto un ritratto ormai storico, popolato di archetipi. Oggi quei bar sono quasi scomparsi, o sopravvivono trasformati in locali generici, o più orientati all’aperitivo che alla partita di pallone. Oltreoceano, intanto, resiste – e si evolve – un parente lontano: lo sports bar statunitense. Maxi-schermi che diffondono luce blu, e banconi che servono birra ghiacciata e alette di pollo. Oggi anche questi spazi si stanno trasformando: negli Stati Uniti stanno nascendo sports bars dedicati esclusivamente allo sport femminile. Cosa raccontano questi luoghi – così diversi – su chi li frequenta, sul cibo che servono, e sul modo in cui viviamo lo sport?
Fuori, la locandina dei gelati confezionati, qualche sedia di plastica, e le cannucce alla porta. Dentro, c’era il juke-box, il flipper, Gazzetta stropicciata, e qualche tavolino dove si giocava a briscola. Ritagli di riviste scoloriti, formica e piastrelle di granito. Un wet dream di Wes Anderson. Nel 1976 Stefano Benni ne dipinge un ritratto magistrale con il suo primo romanzo Bar Sport, appunto, che è diventato ritratto antropologico: personaggi surreali ma veri, come il tecnico esperto di tutto, il nonno da bar, e lei, la torta Luisona, indistruttibile reliquia gastronomica che nessuno osa mangiare. Il bar sport italiano era una sala d’attesa senza orologio, un punto fermo in cui lo sport era principalmente il calcio, e veniva raccontato più che vissuto: si ricostruivano gol mai visti, si davano formazioni azzardate, si litigava per un rigore del 1966. Era un luogo maschile, chiuso, ma vivo. Oggi, sopravvive solo in qualche paese, in forma nostalgica o residuale. La televisione ha cambiato tutto, poi internet ha cambiato la televisione, e infine il bar si è adattato rifacendosi il look e servendo Spritz e birra IPA. Quella comunità del chiacchiericcio calcistico si è dissolta nel silenzio degli smartphone.
Dall’altra parte dell’Atlantico, il concetto è simile ma la forma è un’altra. Il parente lontano del bar sport ha avuto una parabola diversa. Li chiamano sports bars: locali spesso ampi, rumorosi, popolati da decine di schermi, ciascuno sintonizzato su un incontro sportivo diverso. La funzione è chiara: offrire un posto dove guardare partite, mangiare qualcosa di familiare e bere birra mentre si segue l’incontro di baseball, basket o altra disciplina. Da sgranocchiare ci sono alette di pollo piccanti, burger giganti, onion rings e patatine fritte servite in cestini di plastica. Gli sport sono tanti, il pubblico è misto, ma il meccanismo resta quello della visione collettiva. Fin qui, sembrerebbe tutto già visto. Ma negli ultimi anni, negli Stati Uniti, qualcosa sta cambiando.
Immagine The Sports Bra – Instagram
Stanno nascendo – e riscuotendo successo – sports bars che trasmettono solo sport femminili. È una tendenza piccola ma crescente, e racconta molto più di quanto sembri. Un segnale chiaro: c’è un pubblico che chiede visibilità per competizioni spesso relegate fino ad ora in secondo piano. A Portland nell’Oregon, ad esempio, c’è The Sports Bra, (gioco di parole sul termine “reggiseno sportivo”) fondato dall’ex giocatrice di basket Jenny Nguyen, dove si ospitano watch party e serate di gioco a tema sport. Tutti gli schermi sono dedicati a match di leghe femminili, college sports, tornei di tennis, calcio e basket giocati da atlete donne. Il pubblico? Non solo femminile, ma decisamente più giovane, attento, curioso.
Anche l’offerta gastronomica cambia: menù più variegati, presenza di piatti vegetariani, ingredienti locali. La birra c’è sempre, ma spesso artigianale, selezionata, raccontata. Entrano in scena anche cocktails, mocktails e preparazioni stagionali, molto farm to table. Si crea così un’esperienza che non è solo “bar” e non è solo “sport”: è un nuovo spazio sociale, inclusivo, dove si ridefinisce chi tifare.
Il confronto, a questo punto, è anche generazionale. Il bar sport italiano era un luogo statico, maschile, radicato. Lo sports bar statunitense è più fluido, aperto, che oggi si sta facendo anche politico. Lì dove la Luisona non si toccava, oggi si ordina un burger vegano e si tifa per Serena Williams e Megan Rapinoe. Ma c’è un filo rosso: entrambi sono – o sono stati – luoghi in cui lo sport si mescola al cibo, e il cibo alla ritualità collettiva. Diversi modi di vivere lo sport, ma stessa voglia di appartenenza.
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